Sul romanzo, 10 aprile 2010


Vivere per addizione

di Michele Ruele

“Se per i tedeschi continuavo a essere uno straniero; per gli altri stranieri un italiano; per gli italiani, un meridionale o terrone; per i meridionali, un calabrese; per i calabresi, un albanese o “ghieggiu”, come loro chiamano gli arbëreshë; per gli arbëreshë, un germanese o un trentino; per i germanesi e i trentini, uno sradicato, io per me ero semplicemente io, una sintesi di tutte quelle definizioni, una persona che viveva in più culture e con più lingue, per nulla sradicato, anzi con più radici, anche se le più giovani non erano ancora affondate nel terreno ma volanti nell’aria.
A chi queste cose le sa teoricamente, le mie parole possono apparire di un’ovvietà sconcertante. Ciò che non è ovvio, che richiede un cammino faticoso, è indossarle come un abito, farle aderire al tuo corpo come una seconda pelle. Solo così riuscirai a vedere il mondo attorno a te con altri occhi e finalmente, con questo nuovo sguardo senza pregiudizi, potrai godere il meglio della vita qui e là e in ogni luogo, come se i tuoi occhi avessero cambiato colore, da marroni fossero diventati non dico azzurri, ma una via di mezzo luminosa.”


Nel primo racconto di Vivere per addizione e altri viaggi di Carmine Abate (Mondadori, 2010), il treno porta figlio e madre dalla Calabria a Amburgo. Il ragazzo si prende cura della mamma, lei gli dà da mangiare a crepapelle lasagne, uova sode, pane con soppressata, provola, pane con sardella, noci, pere, fichi secchi. Nella valigia marrò ci sta una tazza del caffè che per la mamma è un feticcio, un totem che la collega a casa, alle melanzane dell’orto e alle rondini. La preoccupazione della donna è che si rompa. Perché insieme alla tazza del caffè si romperebbero troppe cose. Il finale è sorprendente: gli esiti alla fine stanno in modo diverso da come li si programma.
Il padre e la madre devono far lauriàre il bir (ragazzo, in arbëreshë): il ragazzo lo sa bene, anche lui è quella tazza da non lasciar spezzare. Ma forse spezzarsi è una necessità per chi deve fare un viaggio che non dura solo quaranta ore di treno, ma rende tutto lo spazio e tutto il tempo un garbuglio che investe vite intere, vite che si intersecano in incontri, ricordi, lunghe fedeltà e esperienze moltiplicate dalla nostalgia (o dalla Fremde, parola tedesca che indica una sorta di senso di estraneità).
Non sono solo racconti di emigrazione e vagabondaggi tra Germania, Italia, Francia, feste del ritorno, colloqui in calabrese in una casa nel quartiere di Altona a Amburgo, incontri a distanza di anni in posti lontanissimi, sguardi innovativi e liberi sui paesi della Calabria che si spopolano, asili trasformati in centri di accoglienza, germanesi (emigrati in Germania) che non vedono l’ora di tornarsene a casa (cioè da Carfizzi in Calabria nella loro nuova città al nord), paura e sfida ai naziskin o alle bande di razzisti di Mühlheim, le avventure vere e proprie di un supplente calabrese nelle valli lombarde e trentine: Abate non racconta solo un’epopea delle avanguardie dei popoli (è la definizione dei migranti data da Hannah Arendt) ma va oltre, mette a frutto uno stile pirandelliano senza sofismi incrociato con le storie picaresche, grottesche e dolorose di John Fante:

“In realtà il mio cuore era una specie di spezzatino, scisso in quattro o cinque parti che mi scombussolavano la vita e non riuscivo a ricomporre neppure sulla carta, quando di notte scrivevo le mie storie. Circondato dal buio e dalle ombre, il bosco e il cielo nero che si aprivano in alto, oltre la finestra socchiusa, ritrovavo me stesso e mi riperdevo spaventato, camuffandomi così bene tra i miei personaggi da non riconoscermi più in nessuno di loro. E non distinguevo nemmeno le mie cinque ragazze che diventavano una sola persona, una sintesi del fascino di ognuna, l’unico grande Amore dell’io narrante.”

Se nei suoi altri romanzi è evidente che il fondo autobiografico è trasfigurato e superato dalla narrazione, in questi racconti la scelta di Carmine Abate si avvicina di più all’autobiografia vera e propria, al reportage e alla non-fiction: però l’estro resta ciò nonostante quello narrativo, e nel lettore suscita la vertigine di chi si ritrova fra la documentazione di vita vissuta e il travestimento avventuroso o del ricordo. È così che funziona, in generale, l’esistenza, no?, non è altro che un racconto continuo; e è fortunato chi ha più vite da raccontare.
E poi la verità e la vita sono semplici, concrete, fatte di salsicce e parole in dialetto, di incontri, di insegnamenti dati e ricevuti, di peperoni piccanti, formiche dell’orto, scarpe di marca indossate con imbarazzo durante la processione tradizionale al paese, incazzature, gelati che colano sulla mano, sole e nebbia: è pieno di emozione e concretezza lo stile di Abate, tutto sommato semplice e a volte stilizzato anche letterariamente, oppure aderente ai modi del parlato.
È interessante il fatto che Abate sia insegnante di italiano, ma che non abbia come sua prima lingua l’italiano, bensì l’arbëreshë (lingua della comunità calabrese di fuoriusciti albanesi tra XV e XVII sec.); e che ai due strati primitivi si siano sovrapposti altre lingue, gerghi, dialetti, forme del parlato ibride. La ricchezza di questa lingua duttile, dalle molte anime, è uno dei pregi di questo libro di racconti.
Vivere per addizione è uscito direttamente nella “Piccola biblioteca Oscar Mondadori”, la collana economica in cui di solito vengono ristampati i libri di più ampia circolazione: la collocazione “popolare” non è casuale: la lettura fa capire molto più che da altri libri che cosa sono il Sud, l’emigrazione, l’Europa, l’Italia, visti non tanto da chi li studia o governa ma da chi li vive direttamente e li sa raccontare.