LEFT, 23 luglio 2010
di Filippo La Porta Carmine Abate fa delle sue radici albanesi, italiane e tedesche una scrittura poliedrica. Che è anche un’idea di società possibile. Lo scrittore Carmine Abate ci offre una bella autobiografia in forma di reportage poetico, ripercorrendo luoghi e personaggi della sua vita nomade picaresca. Un libro che fa da contraltare “antropologico” ai suoi romanzi, dei quali voglio ricordare almeno La moto di Scanderbeg (1999). E soprattutto con una dichiarazione finale che vale come utopia (e proposta) civile. Nato in Calabria nel 1954 e di etnia arberesche (albanese) emigra presto per la Germania, poi fa avanti e indietro, infine decide di stabilirsi a metà strada, in Trentino. Spesso viene scambiato per altro: per arabo, per sardo (perfino con insistenza). Come se contenesse dentro di sé un’alterità incancellabile, che gli permette poi di accogliere qualsiasi altra alterità che si presenti negli altri. Si comincia con un viaggio in treno interminabile, 40 ore per raggiungere il padre che lavorava ad Amburgo. Ma il viaggio è anche nel passato, dentro le culture orali e arcaiche della sua famiglia. Quando sente la nonna cantare antiche melodie albanesi amorose si affretta a registrarla, e dopo a usarle per corteggiare a sua volta qualche ragazza. Come se il passato contenesse una importante ”differenza”, in grado di sottrarci alla omologazione planetaria. E il passato significa due cose: la memoria di una felicità possibile, ovvero il senso di una promessa che deve essere ancora mantenuta, e poi una ferita o frattura originaria. La madre porta al padre, immigrato, la tazza che gli regalò per il matrimonio, ma poi si rompe sul tavolo di marmo in tanti pezzi macchiati di caffè. Un evento banale e al tempo stesso luttuoso, presago di sventure. La madre vive tutto come una metafora (direi quasi “poeticamente”) proprio come accade in una civiltà contadina e premoderna. La lingua dell’autore, meticcia come la sua esistenza, rivela innumerevoli “scarti”, che ne esaltano la espressività. Ad esempio: «per le mie nozze mi ero insògnata una giornata color di rosa, il còre che si spacca di gioia e non di spiacimento». E proprio dalla lingua, da un fraintendimento, nasce una bellissima intuizione che ha valore politico: vivendo in Germania apprende la parola «Legalitat», che lui confonde con la parola francese «egalité» e pensa che significhi “uguaglianza”. ma, come ora commenta, in fondo non si sbagliava, dal momento che l’uguaglianza si identifica con la legalità, con la legge uguale per tutti. E comunque Abate rivela qui e là una vocazione poetica e perfino visionaria, pur dentro il racconto minuzioso, cronachistico. Si veda la descrizione del duomo di Colonia, «un mastodontico elefante carbonizzato, colpito in pieno dal fuoco di una stella di passaggio e pertanto lugubre e inquietante…». Dicevo di un’utopia che affiora da queste pagine, riassunta nel titolo. L’autore, che si trova ad avere molte patrie, non vuole sceglierne nessuna in particolare. Si sente sia del Nord che del Sud, un po’ italiano, un po’ albanese, un po’ tedesco. Perciò il suo è un vivere “per addizione”, non per esclusione. Vuole cioè che dentro di lui le sue molte identità convivano pacificamente senza alcuna gerarchia. . .
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