l’Adige, 7 marzo 2010

Intervista. I sentieri della vita


Dentro l’emigrazione. Il mosaico delle radici

di Giuseppe Colangelo

Uscirà martedì negli Oscar Mondadori il nuovo libro di Carmine Abate “Vivere per addizione e altri viaggi”. Si tratta di racconti incentrati sul tema dell’emigrazione e del ritorno nella Calabria di oggi, scritti in tempi diversi tra il 1993 e il 2009, e raccolti sotto un titolo che riassume come meglio non si potrebbe il senso complessivo delle storie qui narrate ma soprattutto quello, del tutto nuovo, che il tema ha progressivamente acquistato nell’opera dello scrittore calabrese. Dalle prime prove (brevi racconti e poesie) dove prevaleva il bisogno di denunciare <<l’ingiustizia della costrizione ad emigrare>>, alle pagine de “Il muro dei muri” (Oscar Mondadori 2006) in cui si cominciavano a cogliere aspetti meno noti e positivi dell’emigrazione, su su fino a quest’ultimo volume dove i protagonisti emigranti (e l’autore, emigrante pure lui, con loro) raggiungono, racconto dopo racconto, la piena consapevolezza che l’incontro tra più culture, la reciproca conoscenza e lo scambio possono essere vissuti come un arricchimento personale e una speranza collettiva da realizzare. Il libro, per la compattezza tematica e la tensione narrativa che lo percorre ed anima, si legge d’un fiato come un romanzo avvincente.
Con Abate abbiamo voluto fare il punto sul percorso che lo ha condotto a questo straordinario approdo.

Hai esordito, molto giovane, con brevi racconti e poesie <<da cui - parole tue - l’emigrante emergeva come l’eroe, e la terra lontana che lo inghiottiva per undici mesi come il drago cattivo>>, poi hai cominciato a cogliere anche gli aspetti positivi di quell’esperienza. Quando e perché è accaduto questo?

Sì, ho cominciato a scrivere per rabbia a sedici anni: volevo denunciare un’ingiustizia, l’emigrazione per lavoro. Perché costringere una persona ad abbandonare la propria terra e la propria famiglia – come allora era successo a mio padre e prima ancora a mio nonno – per andare a lavorare altrove, è una grave ingiustizia. Poi, però, anch’io sono stato costretto a partire, pur essendo laureato, e, dopo le difficoltà iniziali, mi sono accorto che quest’esperienza aveva in sé degli aspetti positivi (vivere in più culture, imparare nuove lingue, conoscere nuovi mondi, acquisire nuovi sguardi e radici…). Così, fin dall’inizio ho cercato di liberarmi dalla morsa della nostalgia e di non piangermi addosso, pur continuando a mantenere con la Calabria un rapporto forte, passionale.

Alcuni di quei racconti uscirono in Germania nel 1984 (“Den Koffer und weg!”, Neuer Malik Verlag), in Italia invece riuscisti a pubblicarli solo dieci anni dopo. Come mai e con quali riflessi su di te come scrittore?

In quegli anni vivevo ad Amburgo e muovevo i primi passi nell’editoria tedesca, piuttosto che in quella italiana. In Italia, però, i racconti erano piaciuti a un grande linguista come Tullio De Mauro che li propose agli Editori Riuniti. Mi fecero il contratto, ma a pochi mesi dall’uscita del libro, l’editore fallì. È ovvio, ero deluso, ma non abbattuto: ho continuato a scrivere nuove storie, se possibile con più entusiasmo di prima, perché fin dall’inizio ho capito che, al di là del percorso editoriale più o meno fortunato di un libro, uno scrittore deve scrivere storie autentiche, senza strizzare l’occhio alle mode, e poi riscrivere e ancora riscrivere, fino a quando ti strappano la storia dalle mani. Se il libro è buono, prima o poi trova la sua strada e arriva ai lettori.

Nel 1993 hai potuto finalmente dare alle stampe, in italiano, quella primitiva raccolta accresciuta di ben sette racconti (“Il muro dei muri”, Argo, Lecce): cos’era cambiato nel frattempo?

A livello personale era successo che nel 1991 avevo pubblicato con Marietti il mio primo romanzo, “Il ballo tondo” (ora negli Oscar Mondadori) che non era passato inosservato, tant’è che cominciarono a cercarmi diversi editori. Più in generale, con l’arrivo in massa degli immigrati in Italia non si poteva più ignorare il dato che anche noi eravamo stati - ed eravamo ancora - immigrati in altri paesi.

In un saggio di qualche anno fa, hai scritto che all’inizio del tuo percorso creativo eri convinto che la letteratura potesse avere una certa incidenza sociale realizzando una migliore comprensione tra le culture e dunque contribuire a far cadere il muro del razzismo. Poi ti sei accorto che era un’illusione. Ma allora qual è per te la funzione della letteratura?

Sì, è un’illusione che per fortuna ogni tanto si rifà viva come se potesse realizzarsi e cerca di non farsi soffocare dal degrado culturale e sociale, dalla spazzatura che ci schiaccia. Detto questo, potrei aggiungere che io sono per una letteratura emotiva, rifuggo da quella fatta di testa, a tavolino, che ha spesso una funzione didascalica o di semplice intrattenimento. Insomma, sono per una letteratura ancorata nel presente e nel sociale, capace di svelare, e magari cicatrizzare, le ferite individuali e collettive, nascoste dentro di noi.

Veniamo ora al tuo nuovo libro, uscito da poche settimane con il titolo “Vivere per addizione e altri viaggi”. Vuoi descrivere gli addendi e poi parlare della somma, che in questo caso, è anche – mi pare – la summa della tua visione del mondo?

Gli addendi sono i tanti luoghi in cui ho vissuto, dal mio paese in Calabria alla Valtellina e al Trentino, senza dimenticare la Germania. Per ogni luogo una radice, una lingua, uno sguardo, una cultura, un mondo in più. La somma è l’intreccio di queste radici, la consapevolezza e la caparbietà di vivere tutto questo come una ricchezza, come tante tessere della tua esperienza che non devi scartare, privilegiandone solo una a discapito delle altre, ma ricomporre come un prezioso mosaico. Lo so bene: non è semplice realizzarlo, le difficoltà e gli ostacoli non mancano. Ma bisogna puntare su questa visione moderna, su questo nuovo percorso, se si vuole vivere non per sottrazione, lacerati di continuo tra mondi diversi, ma appunto per addizione.

Questi racconti hanno una compattezza tematica sorprendente, al punto da sembrare capitoli di un romanzo, eppure sono stati scritti in periodi diversi. Come lo spieghi?

Questa è stata una sorpresa anche per me: me ne sono accorto quando ho cominciato a raccogliere i racconti che avevo scritto fra un romanzo e l’altro, nell’arco degli ultimi 16 anni. Forse dipende dal fatto che, oltre ai romanzi, sto scrivendo una lunga “saga” scandita da viaggi di andata e di ritorno, una sorta di romanzo corale in fieri, il cui protagonista è uno scrittore che per me, come diceva Elias Canetti, è il custode della metamorfosi e infatti narra le trasformazioni del presente partendo dalla memoria collettiva. Non a caso, nell’ultimo libro, viaggio dopo viaggio si raccontano le trasformazioni della società calabrese e anche fatti di attualità, come la vicenda dell’Europaradiso, che assurgono a metafora dell’intera Calabria.

In uno degli ultimi testi di questa raccolta parli dell’arrivo (non simbolico ma reale) di un gruppo di immigrati a Carfizzi, il tuo paese natale. Una situazione davvero particolare per un paese la cui popolazione si è dimezzata per effetto dell’emigrazione e che apre problemi ma forse, per te e i tuoi compaesani, anche una speranza. È così?

Sì, è una storia emblematica, questa: l’arrivo, in un paese spolpato dall’emigrazione, di immigrati che scappano dalla fame, dalle guerre e dalle violenze di ogni tipo. È stato creato un Centro di accoglienza per donne e minorenni utilizzando un grande asilo ormai dismesso, perché ormai a Carfizzi nascono pochissimi bambini all’anno. Insomma una situazione positiva (basti pensare, ad esempio, alla ricaduta a livello scolastico o lavorativo), completamente diversa dalle drammatiche scene viste a Rosarno e in altre parti d’Italia. Segno che gli immigrati si possono e si devono accogliere in maniera più umana e civile.

Per finire una domanda strettamente letteraria. Gli scrittori che prima di te hanno affrontato il tema dell’immigrazione sono stati in qualche caso un punto di riferimento o tu fin dall’inizio hai cercato una strada tua?

Allora questo tema era ignorato dalla quasi totalità degli scrittori, se si escludono Saverio Strati e pochissimi altri (come dimostra una bellissima antologia curata nel 1982 da Pasquino Crupi per Pellegrini editore, “Un popolo in fuga”; in Trentino ricordo Renzo Francescotti e, prima ancora, Nino Betta). Perciò fin dall’inizio ho dovuto cercare nuove strade, valorizzando e utilizzando nei miei libri la lingua degli emigrati germanesi, raccontando storie di esodi antichi, come quello dall’Albania che ha portato alla nascita del mio paese, e fughe più recenti dei nuovi emigrati, molti con una laurea nella valigia come me. Fino all’approdo consapevole in questa terra di mezzo e di contatto tra Nord e Sud dell’Europa, che con il tempo è diventata la tessera centrale di questo “Vivere per addizione”.