Vibrisse
24 marzo 2002

I due mari di Carmine Abate

di Giovanni Accardo


Tra due mari, il Tirreno e lo Ionio, tra due mondi, la Calabria e la Germania degli immigrati, tra due epoche storiche, il passato mitico e leggendario delle tradizioni e della cultura arbëresh, e il passato più recente, quello delle lotte agrarie e delle occupazioni delle terre del secondo dopoguerra, e quello dell'emigrazione di massa verso la Germania o il Nord dell'Italia: questo il palcoscenico in cui si muovono i personaggi dei libri di Carmine Abate.
Tra due mari, tra due mondi culturalmente e linguisticamente lontani, tra due diverse epoche storiche, si svolge anche il nuovo romanzo (Tra due mari, Mondadori, pp. 197, euro 14,60). Voce narrante è Florian, un ragazzo che incontriamo nell'arco di tempo che va dalla sua infanzia alla fine dell'adolescenza, e che col suo punto di vista spesso mitizza le memorie, raccolte dalla nonna e dalla madre, e i ricordi, proiettandoli in una dimensione favolosa. Florian, figlio di Rosanna, una calabrese emigrata in Germania, e di Klaus, non è più un germanese (così Carmine Abate chiama i calabresi trapiantati in Germania); egli, infatti, è nato e cresciuto ad Amburgo, ma inevitabilmente porta in sé le due identità ereditate dai genitori. A differenza di Giovanni Alessi, protagonista del precedente romanzo, La moto di Scanderbeg, che nei suoi continui spostamenti tra Calabria e Germania non riusciva a trovare un punto di approdo definitivo, contrassegnato da un'inquietudine che diventava ansia di fuga, Florian appare meno inquieto, più pacificato con la sua doppia identità. Tuttavia il viaggio, che è insieme metafora dell'inquietudine e dura realtà storica, costituisce la struttura stessa di quest'ultimo romanzo. I viaggi da cui muove la vicenda sono due: quello in Calabria compiuto nel 1835 da Alexandre Dumas, in compagnia del suo amico pittore Jadin, e quello del fotografo tedesco Han Heumann, negli anni '50. Il fotografo incontra sulla sua strada Giorgio Bellusci, padre di Rosanna e futuro nonno di Florian, mentre sta cercando di recarsi a piedi a Bari. Hans Heumann chiede a Giorgio di fargli da guida nella sua ricerca di soggetti da fotografare e ne nasce un'amicizia duratura. Quando Rosanna, laureata in tedesco, va ad Amburgo ad insegnare, si presenta a casa di Hans, dove al suo posto trova il figlio, Klaus, che diventerà suo marito.
Come si può vedere da queste poche righe siamo in presenza di un romanzo dall'intreccio articolatisssimo, intreccio che si alimenta di un alternarsi di piani temporali ordinati da Abate con grande maestria. Un luogo fa da centro di attrazione di tutta la vicenda e attraversa l'arco temporale in cui essa si svolge, cioè dal 1835 ai giorni nostri; questo luogo è una locanda chiamata il Fondaco del Fico, dove soggiornò Dumas, distrutta dall'esercito regio per stanare un gruppo di briganti, ai tempi di un altro Giorgio Bellusci, soprannominato, per via del carattere irrequieto come le fiamme di un fuoco, focubello. Il pronipote coltiva il sogno di ricostruire il Fondaco del Fico. Ma nel suo sangue scorre lo stesso fuoco del bisnonno, e allora quando nel suo negozio di macellaio si presenta con insistenza un esattore mafioso a pretendere il pizzo, Giorgio Bellusci lo uccide e lo appende ad uno dei ganci utilizzati per la carne macellata, in modo che tutti vedano. Viene arrestato e rimane in carcere per otto anni. Ed è durante questi otto anni che il nipote Florian, attraverso i ricordi e le memorie familiari, tenta di ricostruire la storia del nonno, dapprima guardato con sospetto, poi ammirato. Frattanto Florian, nel corso dei suoi soggiorni in Calabria, conosce Martina, una coetanea di cui s'innamora e con cui inizia una storia d'amore intervallata dai ritorni nella natia Amburgo. Quando Giorgio Bellusci esce dal carcere, riprende a lavorare al suo sogno di ridare vita al Fondaco del Fico, per farne un moderno albergo con piscina. Nel suo progetto prova a coinvolgere anche il nipote, naturale erede di un sogno che passa da una generazione all'altra. Del resto, nella scelta di strutturare il romanzo attraverso un movimento continuo nel tempo, dal passato al presente e dal presente al passato, lo scrittore dichiara un'idea di presente che si alimenta del passato e che nel passato trova le sue ragioni e forse le sue motivazioni più profonde.
A differenza di Scanderbeg, che s'era rifiutato di emigrare, come estremo gesto di libertà, e del figlio, Giovanni Alessi, che aveva rifiutato un posto che gli veniva offerto nella sua terra, per non dover ringraziare nessuno, Florian sceglie di fermarsi nella materna Calabria, dove pure è vissuto soltanto nei periodi di vacanza, per portare a compimento il sogno del nonno. Restare in Calabria significa scegliere la terra materna, e in fondo il racconto di Florian è anche un lungo atto d'amore nei confronti della madre. Un amore che si esprime attraverso una lingua lirica ed evocativa, che trova nel paesaggio calabrese, soprattutto in quello estivo, afoso, profumato e ricco di colori, il suo punto di maggiore espressività, con un lessico che ricorre spesso al termine dialettale e che conferisce maggiore consistenza alla cose che nomina.

L'intervista

Che cos'è il Fondaco del Fico, attorno a cui ruota la vicenda?
Il Fondaco del Fico era un'antica locanda, una stazione di posta, in cui nei secoli scorsi si fermarono numerosi viaggiatori che percorrevano la Calabria in lungo e in largo. Il più noto è stato Alexandre Dumas. Ma è anche il luogo-simbolo di un Sud come terra di transito, come terra in viaggio.
Com'è nata l'idea di questo romanzo?
Un giorno, nella mia scuola di Mattarello, sfogliando una rivista didattica, ho trovato un bellissimo saggio di Vito Teti dal titolo Il Fondaco del Fico e ho scoperto che tantissimi viaggiatori dei secoli scorsi, tra cui il grande Alexandre Dumas, avevano sostato in quella locanda. Questo nome così suadente, Fondaco del Fico, mi ha così colpito nel profondo da non lasciarmi più in pace. Per un paio d'estati ho seguito l'itinerario dei viaggiatori, tra i due mari, sperando di trovare almeno il rudere del Fondaco del Fico. Niente. Nemmeno una pietra. Ma l'aura sì. L'aura l'ho percepita. Così l'immagine letteraria della vecchia locanda è divenuta sempre più nitida e viva fino a diventare un'ossessione, una storia "vera".
Nei tuoi romanzi un ruolo importante ce l'ha la testimonianza orale; ad essa, in quest'ultimo romanzo, è affidata la storia del viaggio di Alexandre Dumas in Calabria e del suo soggiorno al Fondaco del Fico. Cosa c'è di vero?
La sosta di Dumas al Fondaco del Fico è vera: ne ha lasciato testimonianza scritta - sia pure in poche righe - lo stesso Dumas nelle sue memorie di viaggio. È vero anche il viaggio che lo scrittore francese compie verso Cosenza con il pittore Jadin e il cane Milord, nella Calabria dell'ottobre del 1835 sconvolta dal terremoto. Tutto il resto è la testimonianza orale dei miei personaggi, inventato ma verosimile e soprattutto autentico, perché sono autentiche le voci narranti.
Costantino e nonno Lissandro nel Ballo tondo, Giovanni Alessi e Scanderbeg ne La moto di Scanderbeg, Florian e Giorgio Bellusci in quest'ultimo romanzo: una costante dei tuoi libri è il rapporto di ammirazione e diffidenza, di sfida e curiosità di un ragazzo nei confronti di un adulto, delle storie e dei segreti di cui è depositario. Come mai?
Potrei dire schematizzando che nei miei romanzi i vecchi rappresentano la tradizione e i bambini il futuro, e che non c'è futuro senza un recupero critico della tradizione. In realtà come scrittore mi interessano gli sguardi di queste due generazioni: sguardi puri, pieni di stupore, sguardi che quando s'incontrano reinventano il mondo o ci fanno vedere aspetti della vita che di solito non vediamo o non vogliamo vedere.
La madre di Florian, protagonista e voce narrante del romanzo, non ha le tradizionali caratteristiche dell'emigrante meridionale: è laureata in lingue, sposata con un funzionario di banca di Amburgo, figlio di Hans Heumann, un fotografo famoso in tutto il mondo.
In tutti i miei libri precedenti ho raccontato l'emigrazione dei contadini, degli operai, dei giovani disoccupati, quelli che poi diventano "germanesi". In questo romanzo è un altro tipo di emigrazione quella che viene raccontata: l'emigrazione intellettuale, che ha in comune con l'altra la stessa costrizione che sta alla base della partenza, lo stesso viaggio senza ritorno…

Cosa c'è di reale nella figura di Hans Heumann, fotografo che gode dell'ammirazione di Robert Capa?
È una figura inventata. Per renderla credibile e autentica ho dovuto leggere decine di biografie di fotografi famosi, come appunto Robert Capa.
È lecito vedere nel romanzo un atto d'amore di Florian nei confronti della madre e della sua terra, la Calabria?
Sicuramente, anche se l'amore per la Calabria non è un amore a prima vista, ma un sentimento forte che cresce lentamente, mano a mano che Florian si libera dei pregiudizi e coglie le bellezze e i valori profondi di questa terra, persino le sue ferite.
Florian parrebbe più pacificato con la sua doppia identità, forse con una predilezione per la parte calabrese, dell'inquieto Giovanni Alessi, protagonista del tuo precedente romanzo, La moto di Scanderbeg, con cui pure ha tratti di storia comune: può essere considerato una sorta di suo contraltare?
Può darsi che sia come tu dici, può darsi che Florian sia l'inquieto Giovanni Alessi che dopo tanti anni si riconcilia con le sue origini. Certo è che Florian non è stato costruito a tavolino per farne un personaggio emblematico, addirittura pensando al precedente romanzo. Di Florian mi è piaciuto fin dall'inizio il suo sguardo severo e, come dicevo prima, puro sul mondo della propria madre e su quello del proprio padre. Ho capito subito che con uno sguardo così non avrei rischiato di barare con me stesso e con i miei lettori, di raccontare una storia campata in aria, ma al contrario avrei potuto scrivere una storia "emotiva", come quelle che mi piacciono anche come lettore, cioè tutta impregnata di vita.