Gazzetta del Sud
2 marzo 2002

«Tra due mari», romanzo di Carmine Abate
In un sortilegio di ricordi la storia di una famiglia

di Giuseppe Amoroso

È adagiato tra colline argillose, boschi di lecci e burroni, il Fondaco del Fico, un'antica locanda ora in rovina. Lontano è il mare, la strada che porta al vicino paese di Roccalba, piena di buche, sembra massacrata da un bombardamento aereo. Tra lo Ionio e il Tirreno, soffocato dalla calura estiva, il borgo è una gran festa di vicoli e fiori sotto un cielo carico di stelle. Da questo paesaggio calabro calcinato di luce spunta, disegnato a tutto tondo, Giorgio Bellusci sulle cui tracce, per poterlo riprendere nella custodia sacra delle memorie, si pone il giovane nipote Florian, il narratore che ha il compito di snodare i viluppi di destino e di terra che Carmine Abate dissemina in Tra due mari (Mondadori, pp. 199, euro 14,60). Trapassata di stimoli brucianti, che lasciano scie presto contese e smorzate dall'ombra e dai suoi giochi, la prosa sposta ogni pur deciso e calibrato dettaglio, il gesto stampato nell'aria, l'aria stessa increspata di presenze, la voce che raccoglie un brivido di emozioni, verso una metamorfica simbiosi di uomini e natura, facendo cadere il sottile filo di demarcazione al di là del quale tutto rimane disperso, allarmato, preso in una deformazione ossessiva, non impietosa, però, né metallica. Abate dà al suo universo stralunato la fiera impronta di una condizione che si piega su se stessa, si stravolge fino a sfigurarsi in una contaminata forma di mistero. Bellusci attraversa la campagna d'agosto come dentro un «sogno inquieto del mattino», urla come «inseguito dalla morte», lancia nei momenti più convulsi, «lampi di odio puro» dagli occhi «striati qua e là di nero come due castagne luminose». Il suo sogno è quello di restaurare la vecchia locanda, un tempo la più famosa della regione e la più citata dai viaggiatori stranieri. Uomini illustri vi si sono fermati, come Alexandre Dumas e, nel secondo dopoguerra, il noto fotografo tedesco Hans Heumann. Epica e documentaria, rapida e guizzante nelle sporgenze dei fatti avventurosi, pausata e scheggiata di visioni stravolte in una fuga di scenari favolosi, la narrazione sventaglia sorprendenti episodi nella voce di Florian che racconta la storia dei luoghi, della famiglia e della propria vita, traendo in un impasto di stupori e verità, un sortilegio di ricordi d'adolescenza e la radiosa sensazione di stare in pace con se stesso e con il mondo. Sgusciano gli episodi dalle cose, dalle pieghe dei giorni, da vicende talora drammatiche e da quel vivere errabondo tra Amburgo e l'«inferno d'afa» della Calabria. Mosso dai racconti della mamma e filtrato dalla partecipe attenzione del figlio Florian, il flusso degli eventi si arricchisce di un doppio registro espressivo derivandone un'elaborazione sicura, linguisticamente molto controllata e anche una sorta di intonazione composita, in cui gli oggetti, le figure, l'ambiente passano con il loro commento interno, hanno una qualità avvincente d'intrigo e un'altra di riflessione («Adesso finalmente arriverà al Giorgio Bellusci dei nostri giorni, pensavo, al padre macellaio fissato con il Fondaco del Fico e le angurie fredde, mi dirà cosa ha combinato, finalmente. La mamma era convinta di leggermi nei pensieri...»). Le interruzioni secche e le riprese altrettanto determinate imprimono un andamento tensivo a questo libro intimistico e spettacolare, costantemente rigato da un riverbero strano, da un filo di piccole realtà che si eclissano senza un visibile motivo, proprio quando più sembrano essere lì, solidi elementi necessari al contesto. Nell'atmosfera appannata anche i visi sorridenti sono attesi dalla chiamata dell'ignoto, dal beffardo teatro della vita ingannatrice. Fitto di spunti (dalle citazioni di libri e film al culto dei costumi locali; dalle trame amorose allo zigzagare di oscuri segreti; da una gita sull'Alster ghiacciato a una cruda pagina sul banditismo calabro dell'Ottocento), il romanzo, lesto pure nel distendersi in strutture corali, si coagula soprattutto intorno alle improvvise irruzioni di Giorgio Bellusci, «sognatore incallito», coinvolto in un omicidio, e alla presenza dell'appassionata Martina, la giovane e bella compagna di Florian. Abate pratica con successo la strategia dello spiazzamento, sposta in un vortice di eventi i personaggi: alcuni, di rilievo, finiscono talvolta sullo sfondo con «contorni pallidi e sbiaditi»; altri prendono uno scatto imprevedibile, come Hélène, moglie di Heumann, la quale sembra «una statua maestosa di Michelangelo». Accadimenti basilari vanno in dissolvenza, dettagli di margine si avventano sul primo piano con una vertiginosa evidenza. V'è posto per un manoscritto di Dumas e per un attentato intimidatorio in questa cronaca lenticolare che conosce lo stupore e la lenta crescita di una psicologia, il risveglio di una coscienza in accordo con l'esterno esuberante, acceso da un'animazione incredibile. Trattenuti appena da un'intensa sillabazione di sentimenti scorrono quadri di limpida bellezza, dove il racconto delle persone è racconto di immagini, luci, nuances. Veduto dall'alto di un monte il Fondaco del Fico «assomiglia a una nave sopra un mare verde e giallo». Un miracolo di serenità e di bellezza su cui si avventa il rombo del buio.