Ora Locale
Marzo-Maggio 2002 n.28
Tra due mari
di Giuseppe Muraca
Con Carmine Abate la letteratura
calabrese - dopo un periodo di appannamento - è riuscita a raggiungere di
nuovo una risonanza nazionale e internazionale, vuoi per la singolare
qualità dei suoi romanzi e vuoi perché la Calabria non viene considerata in
maniera angusta e provinciale ma rappresenta per lui crocevia e tramite di
collegamento fra diverse civiltà e culture. Infatti, Abate non è solo uno
scrittore ben radicato nella nostra realtà regionale, cioè che avverte in
maniera profonda il senso di appartenenza alla comunità di origine, ma è al
tempo stesso uno scrittore europeo che è riuscito dalle sue vicende
biografiche a trarre lo spunto per un discorso dai risvolti letterari e
antropologici molto complessi e ad inserirlo in un orizzonte più ampio,
universale. Nella sua vicenda umana e intellettuale tre dati sembrano contare
in maniera particolare: le sue origini arberesh, la sua appartenenza alla
comunità calabrese e gli anni trascorsi in Germania durante la sua
giovinezza. Questa formazione culturale poliedrica e multietnica è
riscontrabile in tutti i suoi romanzi e si riflette direttamente nel suo
stile vario e colorito, nel suo plurilinguismo che non diventa mai una fredda
esercitazione ma rispecchia spontaneamente una determinata realtà.
Dopo aver pubblicato alcuni libri di poesia, di racconti e un saggio
sociologico sugli immigrati italiani in Germania, Abate si è imposto
all'attenzione dei critici e dei lettori con i due bellissimi romanzi Il
ballo tondo (Marietti, 1991, 2 edizione, Roma, Fazi, 2000) e La moto di
Scanderbeg (Roma, Fazi, 1999), che in questi ultimi anni sono diventati un
piccolo caso letterario e che sono stati tradotti in varie lingue,
riscuotendo un certo successo.
Ciò che maggiormente colpisce di questo scrittore è il suo stile limpido e
misurato, la sua vena felice che conserva sempre un legame profondo con la
storia millenaria, le tradizioni e i costumi della nostra regione. La sua
scrittura mantiene infatti il ritmo, l'armonia e le suggestioni delle
rapsodie e dei racconti popolari, mentre gli avvenimenti i personaggi sono
immersi in un alone fantastico, quasi mitico, da cui emergono grazie ad un
processo di rievocazione e di scavo mnemonico, spesso doloroso e drammatico.
Non a caso il ricordo e la memoria svolgono nella sua narrativa una funzione
primaria, quasi catartica e liberatoria.
Con il suo terzo romanzo, Tra due mari, pubblicato da poco dall'editore
Arnoldo Mondadori (pp. 202, € 14,60) e già recensito favorevolmente da
vari quotidiani e periodici, Abate conferma fino in fondo le sue doti e le
sue qualità di narratore, però la sua nuova storia non è più ambientata
ad Hora, il paesino di origine arberesh dei suoi libri precedenti, bensì
nella piccola comunità di Roccalba, situata a un centinaio di chilometri
più a sud, nell'istmo tra il golfo di Santa Eufemia e quello di Squillace.
La figura centrale del libro è rappresentata da un certo Giorgio Bellusci,
una sorta di patriarca, forte e testardo, che come tutti i personaggi
principali della narrativa di Abate, anche lui insegue il suo sogno, il suo
grande progetto: quello di ricostruire la locanda "Il fondaco del
fico", di proprietà di un antenato, in cui nel lontano 1835 aveva fatto
sosta, insieme ad un suo amico pittore e ad un cane di nome Milord, un
singolare viaggiatore straniero, nientedimeno che lo scrittore francese
Alessandro Dumas. Così dopo una giovinezza avventurosa ed errabonda mette
mano agli attrezzi e dà via ai lavori. Ad un certo punto però il suo
progetto viene ostacolato dalla 'ndrangheta locale, ma lui non ha alcuna
intenzione di arrendersi e così si ribella e uccide un mafioso, finendo in
prigione.
La vicenda di Giorgio Bellusci viene rievocata da suo nipote Florian, mezzo
calabrese e mezzo tedesco, che ad un certo punto tramuta la sua iniziale
antipatia per il nonno in amore viscerale. Ed è proprio questo intenso
legame con il mondo dei suoi avi e il richiamo dei valori arcani e sacri
della civiltà contadina calabrese che lo spingono ad abbandonare quasi
definitivamente la Germania e a stabilirsi per diversi mesi dell'anno a
Roccalba. Alla fine Giorgio Bellusci viene sconfitto, ma non dalla
'ndrangheta, bensì dalla legge ingiusta della natura, ossia dalla malattia e
dalla morte, ma a realizzare il suo progetto ci pensa suo nipote Florian, che
a conclusione del romanzo consegna allo scrittore, camuffato da finto
viaggiatore, quasi alla stessa stregua di Alessandro Dumas, la sua storia
accorata, quasi a voler suggellare con il suo racconto una vicenda unica e
irripetibile, come la vita di un uomo. Tra due mari si conclude così, con
questo tono di amarezza e di rimpianto, con questo senso di fatalità e di
tristezza, ma anche con la speranza e la certezza che l'eredità dei vecchi
(e quindi i loro sogni di riscatto, che in fondo sono il motore e la linfa
della stessa vita umana) non andrà mai perduta, bensì verrà raccolta e
custodita gelosamente e continuata dalle nuove generazioni, che hanno il
compito di proseguire il cammino millenario dell'uomo.
Questo in fondo è il messaggio positivo del nostro scrittore, che
all'invenzione di una storia così singolare riesce ancora una volta ad unire
uno stile fresco, intenso e serrato, che a momenti di taglio realistico
alterna passaggi in cui è l'elegia a prendere il sopravvento. Ma al di là
di questa varietà di toni, Fra due mari è un romanzo molto compatto e
avvincente: la tensione narrativa non viene mai meno e le sue pagine quasi
scivolano via, una dietro l'altra, conquistando il lettore che ha quasi
fretta di arrivare alla fine e poi di ricominciare daccapo.
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