il Quotidiano 23.06.2006

Nuova edizione negli Oscar Mondadori dell’opera prima di Carmine Abate
Oltre “Il muro dei muri
di Isabella Marchiolo

  Sono state scritte all'inizio degli anni Ottanta le storie di “Il muro dei muri”, esordio narrativo di Carmine Abate che oggi ritorna in libreria con una versione ampliata per gli Oscar Mondadori. Da quella prima edizione in tedesco dell'84 (a cui era seguita, nell'93 la traduzione italiana con la casa editrice pugliese Argo) sono trascorsi dodici anni. Eppure, leggendo i quattordici racconti del libro, la sensazione è quella di un involontario, fatale annullamento del tempo. Quasi un destino che si ripete. Nelle storie dei “germanesi” partiti con la valigia di cartone, in fuga da luoghi caldi di sole ed aridi di pane verso quel Nord prodigo di denaro facile. Quel Nord, soprattutto, di sogni cullati nell'ansia di un nuovo risveglio nella stessa, avara terra abbandonata.
Ma è anche - possiamo pensarlo oppure lo sappiamo d'esperienza - il destino dei giovani laureati che oggi partono da Sud diventando un numero dell'altisonante espressione coniata per l'emigrazione moderna, la “fuga dei cervelli”. E, infine, il destino degli eredi contemporanei di quel nostro destino tutto meridionale, gli extracomunitari che oggi, come in uno specchio, sostituiscono alla Germania delle promesse una favolosa “Italia aperta”, ancor più ghiotta nell'effimero ritratto di abbondanza millantato dalla televisione. Nei racconti di Carmine Abate, oltre i confini di luoghi, nazionalità e lingue, c'è tutto questo. E, certo, constatare che la storia si ripete, mette addosso un po' d'inquietudine, come sempre quando immaginiamo un destino padrone. Ma Abate, già in questi racconti abile a dosare malinconia e leggerezza in una scrittura fresca e immediata (quella che sarebbe giunta a maturazione nei primi romanzi “La moto di Scanderbeg” e “Il ballo tondo”), riesce salvare i suoi personaggi da quel male velenoso che resta in agguato ogni volta che l'emigrazione diventa oggetto di narrativa. Una malattia spesso incurabile, ovvero l'asfissia di sentimenti gravosi e solitari, difficili da raccontare come lo sono la nostalgia, il vittimismo, la colpa, il senso d'inferiorità. E che in letteratura possono cedere alla rischiosa tentazione del melodramma. Esistono anche nelle storie di “Il muro dei muri”, questi oppressivi sentimenti, e non potrebbe essere altrimenti. Ma ai “germanesi” di Carmine Abate, e con loro ai figli, i nipoti, le mogli e le fidanzate, non manca l'aria. Al contrario, il lettore respira insieme ai personaggi, si scopre solidale in quella umana, universale condizione di “vita capovolta”. I piedi in un posto, la testa altrove. E le tenere, ingenue speranze giovanili che s’induriscono, mentre in una terra sconosciuta, “si diventa rovi”.
Lo scrittore di Carfizzi, emigrato da ragazzo con la famiglia, sussurra racconti uniti tra loro da un filo, lungo il quale anche chi non porta nella memoria le cicatrici di una partenza può riconoscere eventi della vita familiari all’animo. C'è il figlio di un emigrante che trasforma il padre in un “idolo lontano”, circonfuso di ammirazione e debolezza. Ma l'idolo lo ammonisce di imparare a far bene almeno una cosa per non diventare un “ciuccio” che va solo dove vuole il padrone. E gli fa giurare di non partire mai, perché quando si parte non si ritorna più. C'è il giovane costretto ad emigrare per pagarsi la casa dove andrà a vivere con una fidanzata che non ama più. E parte a malincuore, perché non ha in testa ambizioni di studio o potere. Lui vorrebbe soltanto lavorare all'aria aperta nei campi, perché «se tutti studiamo, chi la coltiva questa nostra terra? Chi ci dà pane e companatico?». C'è l'operaio emigrato che attende il ritorno in paese per vantarsi con gli amici di un incontro erotico con una peep-show girl del quartiere a luci rosse di Sankt Pauli. Non dirà, però, che la spogliarellista è un'emigrata con i segni delle sue stesse ferite e umiliazioni, una che per la strada i tedeschi osservano in “modo strano” perché non è una di loro. C'è la difficile scelta tra il ritorno e l'amore incontrato in Germania, due felicità a cui ugualmente non s'intende rinunciare. C'è la leggenda meridionale
del tesoro scomparso, una caccia al tesoro di ragazzini nella campagna assolata, in lotta contro gli spettri di spaventosi pipistrelli guardiani. C'è la paura delle spedizioni razziste contro gli stranieri, dell'interminabile strada buia verso l'alloggio in quella terza sera che potrebbe essere l'ultima per ogni emigrante. E c'è il vuoto di aver perduto per sempre le radici, e con esse l'esistenza, rimanendo in gabbia come una bestia impazzita. «Né qui, né lì - dice al nipote l'anziano Zu Pietro - se potessi decidere io, sparirei». Ancora alto su tutte queste vite si
erge “il muro dei muri”, quello costruito dall'intolleranza e dall'odio, il vero nemico della nostra società multiculturale che tenta di abbattere le sue barriere. Senza più picconi, ma con la sola forza di parole dagli accenti discordanti, che messi insieme, per incanto, risuonano in armonia.