La Provincia
1 gennaio 1999
 


Carmine Abate “Voce degli altri”
di Fulvio Panzeri


   Era l'unico nel paese ad avere la moto. L'uomo con gli occhi neri "come olive napolitane, sgherri e caldi", sempre impolverato dalla testa ai piedi e bianco come un fantasma. Non si faceva volare una mosca sul naso e, se c'era da menare le mani, lui non si tirava indietro. Era la guida della folla cenciosa che andava a occupare le terre abbandonate dei fondi da seminare. La gente lo chiamava Scanderbeg. "La moto di Scanderbeg" è il nuovo romanzo di Carmine Abbate, dove questo avventuriero un po' strampalato, sempre in sella alla sua Guzzi Dondolino, vive nella memoria di un ragazzo arberesh emigrato in Germania. E lì - nell'epos della leggenda - si confonde con un altro Scanderbeg, quello del Tempo Grande. Quando il terrore generava mostri e le chimere sputavano fuoco nel cielo di Croia. Giorgio Castriota, l'eroe albanese della guerra contro i turchi. Cinque secoli fa, quando non c'erano i gommoni degli scafisti a trasportare i profughi di qua dall'Adriatico. Trilingue e giramondo - calabrese d'origine, emigrato in Germania, residente in Sud Tirolo, sociologo dell'emigrazione - Carmine Abbate fa rivivere la leggenda del grande condottiero, ascoltata da bambino, dentro la storia del Sud. Quello dell'occupazione delle terre, dei morti di Melissa, degli eroi contadini, che fonda la memoria comune del Meridione d'Italia. Qui, Scanderbeg trova il suo doppio. La sua reincarnazione. "E il mito comune - aggregante - di tutti gli albanesi. Quelli che vivono in Italia, quelli di là dall'Adriatico e i kosovari", spiega Abbate. "Quando ho pensato di scrivere un libro sull'occupazione delle terre, per riproporre un capitolo tragico, ma anche epico, vitale e gagliardo della storia del Sud - il momento in cui i contadini capirono che bisogna essere artefici del proprio destino - inconsciamente mi si è subito presentato lui: Scanderbeg. E questo è diventato il soprannome dell'uomo con la moto. In effetti, i leader delle occupazioni di terre, in qualche modo, gli somigliavano. Nel loro rifiuto dell'ingiustizia e nel desiderio di capovolgere il mondo". Nato a Carfizzi, paese di origine albanese, una delle colonie fondate dagli arberesh del Regno di Napoli, Abbate valorizza qui il ruolo di queste comunità nella storia delle rivolte contadine. Da dove viene la vocazione rivoluzionaria degli arberesh? "Non lo so", risponde, "ma certo è che, in Calabria e in Sicilia, furono le avanguardie. Carfizzi è citato in tutti i libri di storia delle occupazioni e Melissa è a un tiro di schioppo. Erano gente semplice, ma non erano rivoluzionari sprovveduti. Avevano un loro progetto e sapevano raccontare benissimo, anche in italiano, le loro storie". Contadini orgogliosi, che appaiono lontanissimi dall'immagine della nuova emigrazione albanese. La loro civiltà non somiglia alle società dai tratti semitribali di cui si parla oggi, fatte di clan dove le donne e i fanciulli sono proprietà degli uomini. "L'immagine mediatica degli albanesi è costruita sul pregiudizio. Non c'è nulla di più facile che addebitarne tutto il male a quelli che vengono da fuori scardinando il nostro modo di vivere", dice ancora Carmine Abbate. "Anche gli italiani in America furono descritti tutti come mafiosi". In questo nuovo romanzo, Abbate affida al mito una funzione importante: è il nucleo attorno al quale si ricompone un'identità multipla, altrimenti dispersa. "A me interessa molto la narrazione orale", spiega, "quella dei cantastorie del passato - gli scarpari, i barbieri e i contadini di quando ero ragazzo - che sapevano raccontare come narratori del mondo pre-omerico. Il mito serve a tenere insieme i pezzi della propria storia: l'uomo meridionale, l'arberesh, l'emigrante che si lascia dietro un pezzo di storia per viverne altre, in Germania, in Svizzera, nei Paesi del Nord Europa". Ma l'oralità è, prima di tutto, la lingua. Nel suo precedente romanzo, "Il Ballo tondo", c'era l'arberesh. Qui invece troviamo un italiano contaminato e meticcio. "Ho italianizzato l'arberesh, forse per paura di perderlo. Perdere la lingua, è un po' perdere se stessi. Stiamo andando verso società multiculturali, dove le lingue saranno sempre più il risultato di una contaminazione. La lingua che ho usato ne "La Moto di Scanderbeg" è un'invenzione. Ho cercato di conservare la musicalità originaria, seguendo i miei personaggi, che mi si presentano parlando arberesh. Ho italianizzato le loro voci anche per superare un discorso di minoranza etnica". In effetti, la storia minoritaria degli arberesh, il loro bilinguismo, sta diventando quella universale della contemporaneità: tutti dovremo esser almeno bilingui, il trapianto della cultura d'origine in quella di accoglienza non è più il problema di alcuni". Se si chiede a Carmine Abbate che cosa prova, quando sente parlare delle tragedie del Kosovo, risponde. "Una grande angoscia. Gli arberesh sono diversi dai kosovari e dagli albanesi, sono vissuti per cinque secoli in un contesto completamente diverso. Siamo uomini del Sud d'Italia a tutti gli effetti, nonostante la lingua diversa. Eppure, so che può sembrare retorico, guardo gli albanesi e i kosovari come fratelli separati. Cresciuti in famiglie diverse. Il sangue resta lo stesso. E quando dico sangue, intendo la memoria storica. I miti fondantivi dell'identità". Scanderbeg, appunto.