Nuovo Dialogo
1 gennaio 1999
 


Emigrazione e Sud nei romanzi di Abate  
di Silvano Trevisani


   Una vita di partenze, ritorni, insoddisfatte ripartenze, deludenti ritorni. Il ballo tondo, la vallja degli arberesh (comunità albanesi residenti in Italia), ci porta con sé in questa circolarità che è fondamentale in ogni vita, ma è una “metafora della vita stessa” per gli epigoni della diaspora albanese, che si ritrovano, cinque secoli dopo, ancora a riaprire il cerchio di questa continua fuga. Siamo di fronte a due romanzi, “Il ballo tondo” e “La moto di Scanderbeg” di Carmine Abate, che toccano, con la profondità e l’ampiezza di una sinfonia collettiva, anzi di una polifonia, temi storici, poetici e letterari a noi molto vicini. Carmine Abate, l’autore di questi due romanzi, che si sono affermati nel panorama della letteratura, in questi mesi, reduce egli stesso da una continua fuga tra l’Italia e la Germania, che lo ha portato a risiedere ora più stabilmente in Trentino, è nato a Carfizzi, un paese della Calabria di origine albanese che ce lo avvicina per la condivisione che egli esprime con la cultura albanese della comunità presente nel nostro territorio. I due romanzi sono in sequenza logica, sia dal punto di vista narrativo, sia da quello stilistico. Il primo è “Il ballo tondo”, pubblicato con successo, qualche anno fa da Marietti, e ora ripubblicato da Fazi, dopo il nuovo, singolare successo di “La moto di Scanderbeg”. Una vita in fuga è quella di Giovanni Alessi, il protagonista de “La moto di Scanderbeg”; un ritorno incompiuto, sebbene eternamente professato, è quello del Mericano, emigrante in Germania, che deve il suo nome a un viaggio in America, anche questo incompiuto, (in reltà “mai compiuto”), e che è il padre di Costantino, il giovane protagonista de “Il ballo tondo”. Il tema dell’emigrazione è fondamentale nella narrativa di Abate, ma acquisisce un significato particolare. Il tema dell’emigrazione, del nostos, della nostalgia del resto, è sempre presente in chi è costretto (ma anche in chi sceglie) a lasciare il paese natio che, per gli arberesh, ha un doppio valore perché a quello reale, contingente, ne aggiunge uno simbolico, legato alla storia stessa delle comunità albanofone d’Italia, che nella loro lingua conservano ancora la radice del proprio essere comunità, della propria storia. Una storia che ritorna, in maniera circolare, nei due libri, attraverso le rapsodie recitate in “Il ballo tondo”, o l’ossessione dell’aquila a due teste, che è il simbolo del paese delle aquile, l’epica popolaresca dell’eroe nazionale Scanderbeg, o nella “Moto di Scanderbeg”, oltre che nel titolo stesso, nel nomignolo attribuito al padre, coraggioso e ardimentoso, rivoluzionario e leggendario come un cavaliere, così da meritare egli stesso l’appellativo di Scanderbeg. La narrazione ha essa stessa un andamento rapsodico, dando alla materia del racconto il tenore epico di un’epopea, che si riversa nella quotidianità, nella piccola storia di piccola gente che assurge a dignità di “grande storia” per via di grandi sentimenti e di grandi emozioni, che trovano il teatro più autentico nell’animo di chi dispone di quella sensibilità e spiritualità che solo in pochi posseggono; solo coloro che, come l’adolescente Costantino, si fa anello di congiunzione di un patrimonio non solo genetico, ma culturale. Convincente e persuasivo il ritratto del Sud, fatto attraverso un esperimento linguistico singolare rappresentato dalla frammistione della lingue arberesh. Finalmente un narratore che ci racconta il Sud con senso critico. Abate esalta la cultura popolare senza le mistificazione antropologiche di certe scuole, ma spiegandone, attraverso anche la percezione che un adolescente ha di quei significati reconditi, il valore culturale unificante e socializzante.