Il Diario della settimana
5 agosto 1999
 

Una moto asseconda inestirpabili bisogni di fuga
Di padre in figlio
di Massimo Onofri


   Carmine Abate è nato a Carfizzi, uno dei paesi albanesi di Calabria, e ha pubblicato nel 1991 un romanzo struggente e corale, "Il ballo tondo", ambientato nella comunità "arbëreshe" di Hora, che è poi stato tradotto in Germania, Albania e Kosovo. Dico questo perché in tali dati sta già tutta la topografia esistenziale della "Moto di Scanderbeg". Anche il protagonista del nuovo romanzo, Giovanni Alessi, come il Costantino del "Ballo tondo", è un albanese di Calabria: e abbandona Hora, emigrante a Colonia, sulle tracce della sensualissima e irrequieta Claudia (una donna di brusca bellezza, tenera sotto l'apparente indisponenza, e "forte dalla testa ai piedi"). Giovanni è il figlio di Scanderbeg, e dal padre, morto per un'incredibile scommessa, ha ereditato "oltre al soprannome, anche i capelli ricci e la moto Guzzi Dondolino". Lo avevano chiamato Scanderbeg, quel padre che, nel secondo dopoguerra, attraversava instancabile la Calabria sulla sua moto leggendaria, per organizzare l'occupazione delle terre, "perché non si faceva volare una mosca sul naso, odiava le ingiustizie e i prepotenti, e quando c'era da menare le mani, non si tirava mai indietro". Il vero Scanderbeg è l'eroe che sta alle origini del tempo, il "Tempo Grande" della comunità albanese, colui che l'ha guidata nella lotta contro gli invasori turchi, indicandole poi, in caso di sconfitta, la via verso l'Italia. La controversa vicenda d'amore di Giovanni e Claudia, tra Germania e Calabria, s'intreccia a quella, movimentatissima, dei genitori di Giovanni: ma dentro una sintassi del sentimento, un ritmo della memoria, che sono assicurati da un "epos" in cui è un giuoco il destino di una comunità. Lascio al lettore il piacere d'inoltrarsi ancor più nella folta trama d'eventi. Mi preme piuttosto dire qualcosa sulla tecnica di montaggio utilizzata da Abate per assemblare il suo materiale: che è quella di affidare il racconto a più voci, con repentini ritorni al passato, rapide fughe in avanti, bruschi spostamenti del punto di vista. Voci tra cui si contano pure quelle di Claudia, della madre Lidia, dello strepitoso zio Mario (il cui italiano imbastardito da emigrante, giuocato con grande perizia linguistica e ironia, mi ha richiamato il Pascoli di "Italy"), di Stefano Sartori, "il ragazzino dagli occhi di calamita", che un giorno predisse a Giovanni una morte precoce e che, scomparso per anni da Hora, riappare misteriosamente nella sua vita, nelle nuove vesti di storico della sua gente. Per il modo in cui ha condotto il suo assemblaggio, si potrebbe addebitare ad Abate, e con qualche ragione, un certo squilibrio strutturale: talvolta, anche una qualche sovrapposizione, a livello di voce narrante, tra i suoi pur robusti personaggi. Ma, quanto agli squilibri, credo gli si farebbe torto: essi, infatti, valgono come assestamenti sismici: quelli provocati da una costante perturbazione, che accende pure le improvvise fiammate di un sanguigno lirismo. Tale perturbazione coincide esattamente con un continuo movimento, un inestirpabile bisogno di fuga, quasi una specie di contrappunto del vivere: non sta forse nello spirito di contraddizione il vero stemma araldico dei due Scanderbeg? E la moto Guzzi non è la più significativa icona del romanzo? Mentre leggevo, sentivo forte l'arsura e l'afa di Hora: un vero "leitmotiv". Allora ho capito e mi è venuta in mente una pagina straordinaria di un altro calabrese, Corrado Alvaro: là dove si raccontava d'un paese che "pensava all'acqua da centinaia d'anni". Ecco, in questo bel romanzo, io ho avvertito come il ricordo sfiancante e febbrile di una sete atavica: che in questa prosa venturosa si è fatta pura sete di vita.