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   Trentino 
	e Alto Adige, 12.03.2006 
 
Tra rabbia e memoria 
Nel nuovo libro di Carmine Abate la genesi di uno scrittore 
di Carmela Marsibilio 
	Sono passati 15 anni dall’arrivo della prima ondata di 
	albanesi in Alto Adige. Era il 18 marzo 1991. L’Associazione Panalbanese “Arberia”, 
	da ieri e per due settimane, lo ricorda con diverse iniziative. Sarà ospite 
	anche Carmine Abate, scrittore di origine arbëresh che domani alle 18.00, al 
	Circolo cittadino, presenterá il suo ultimo libro “Il mosaico del tempo 
	grande” (Mondadori). Un intreccio di storie tra passato e presente e 
	l’epopea dei profughi arbëreshe del quattrocento che richiama le storie di 
	profughi dei giorni nostri. E la condizione di “migranti”, quella in cui 
	anche Carmine Abate si riconosce e che costituisce il tratto piú forte della 
	sua scrittura. Oltre alla rabbia.  
	
 
È stata davvero la rabbia il punto di partenza della sua 
scrittura? 
«Sì, è vero: ho cominciato a scrivere per rabbia perché volevo denunciare 
l’ingiustizia che ritenevo di aver subìto: avere avuto un padre costretto - come 
il proprio padre e più tardi come il proprio figlio - all’emigrazione dalla 
mancanza di lavoro, strappato alla famiglia e alla sua terra ingiustamente. E 
poi la rabbia contro il razzismo, contro le discriminazioni subíte dagli 
immigrati. Insomma, all’inizio vedevo solo gli aspetti negativi 
dell’emigrazione. Col tempo ho colto anche la ricchezza che porta con sé 
quest’esperienza: ricchezza culturale, intendo, visto che si imparano nuove 
lingue, si vive in più culture, tra due o più mondi… E dunque puoi entrare forse 
più facilmente in sintonia con il complesso mondo multiculturale in cui viviamo. 
Ovviamente non è semplice, e i miei libri sono anche un tentativo di raccontare 
questo percorso - che non è sempre pacificato e lineare - intrecciando le storie 
che mi sono portato dentro dal mio mondo con le nuove che ho vissuto da quando 
sono partito». 
Il suo ultimo libro è un mosaico giocato su diversi piani… 
«Sì, è un libro strutturato proprio come un mosaico. Ma, a parte i diversi piani 
temporali, vi sono diversi piani spaziali e tante tessere linguistiche, tanti 
ritmi e voci narranti. Il tutto, però, si armonizza come in un mosaico, in cui è 
importante non solo l’immagine d’insieme, ma anche gli spazi bianchi tra le 
tessere, il non detto, gli aspetti più misteriosi della vita». 
La storia, l’identità di un popolo è il risultato di tanti tasselli… 
«Sicuramente: è sufficiente andare a ritroso nel tempo per accorgerci che è 
così, non solo per i popoli ma per le singole persone. E dunque l’identità è 
spesso complessa e variegata. Anche molto dinamica, essendo in continuo 
movimento, in trasformazione. Ecco perché il recupero ad ogni costo di una 
presunta vera identità, fissata una volta per sempre, può diventare 
un’operazione errata e per certi aspetti pure pericolosa, come la storia ci 
insegna». 
Anche in quest’ultimo lavoro torna una costante del suo mondo narrativo: 
parlare del presente scavando nel passato… 
«E’ vero: non riesco a immaginarmi una storia che non parta da lontano, anche se 
alla fine ciò che mi interessa maggiormente è il nostro tempo, il presente. Però 
sento di illuminarlo meglio, l’oggi, di raccontarlo più in profondità, andando 
alla ricerca delle radici, delle luci e delle ombre della nostra memoria 
collettiva. Del resto, mi ritrovo in una bella definizione di Elias Canetti: lo 
scrittore è il custode della metamorfosi, cioè della memoria proiettata verso il 
futuro, verso il nuovo. Altrimenti il suo recupero sarebbe privo di significato, 
una sorta di nostalgia inutile e dannosa, qualcosa di mummificato, incapace di 
dialogare con noi, adesso, ai giorni nostri». 
Come ha scelto le storie con cui ha costruito “Il mosaico del tempo grande”? 
«In realtà non scelgo mai le storie a tavolino, non faccio scalette quando 
scrivo. Parto da un’immagine nitida e poi le storie vengono da sole assieme ai 
personaggi, che vanno per conto loro, fanno ciò che vogliono, si esprimono con 
la propria lingua che diventa la loro voce autentica. In questa maniera mi 
emoziono anch’io quando scrivo, perché non so mai come finirà la storia». 
Perché ha voluto aggiungere alla sua scrittura già di per sé molto espressiva 
ed evocativa anche il dialetto arbëresh? 
«Beh, intanto l’arbëresh è una lingua, la mia lingua materna, quella più 
radicata dentro di me, gjuha e zëmëres, diciamo noi, la lingua del cuore. E’ 
perciò inevitabile, quando ambiento le storie nel mondo arbaresh, che sulla 
pagina s’impiglino parole o frasi arbëreshe. Mi accorgo sempre di più che esse 
sono delle esche che mi portano a galla delle storie, dei valori condivisi, dei 
ritmi particolari. L’arbëresh non mi serve dunque per colorare la pagina di 
esotismo, tant’è che lo uso solo quando è necessario, mescolandolo a volte con 
altre parole germanesi, calabresi, neologismi, in un tessuto narrativo che però 
sia ben comprensibile al lettore, che gli faccia godere il racconto».  
Oltretutto lei scrive soprattutto della Calabria e del nord Europa vivendo in 
Trentino. Come vive questo aspetto? 
«Come una necessità. Ne ho bisogno perché qui ho acquisito un nuovo sguardo, lo 
sguardo di mezzo, che mi consente di narrare con il giusto distacco il mio 
passato e le altre terre in cui ho vissuto. Questo sguardo è ormai per me 
importante quanto quello che mi porto dalla mia terra». 
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