Gazzetta di Parma, 28.01.2006
 

Il mio presente che sa d’antico
di Guido Conti

  Comincia bene il 2006. Il nuovo romanzo di Carmine Abate Il mosaico del tempo grande, è un bel romanzo, ben scritto e ben strutturato, dove passato e presente s’intersecano in una storia epica e di fondazione mitica non solo di un paese ma di una identità. La vicenda si costruisce su due binari, la prima sul racconto mitico che ha portato alla nascita del paese di Hora in Calabria, che genera tutte le storie di Carmine Abate, e il racconto di oggi, di un ragazzo che nel romanzo racconta in prima persona, che vuole conoscere quella storia, raccontata a pezzi da un grande artista Gojàri che lavora con le tessere del mosaico. E proprio con queste piccole tessere che il racconto si sviluppa e aggalla nella contemporaneità grazie ad un narratore orale che incanta e ricuce le vicende, dove il tempo passato perde senso e tutto s’invera nel racconto presente. La vicenda ha come protagonista Antonio Damis che sopra un camion, vestito a festa rischia la vita in un incidente. Vuol farsi fare la fotografia per avere il passaporto e tornare in Albania da dove è partito con la nave insieme al papas e ai suoi compaesani. Qualcuno ha manomesso i freni? Chi è stato? Il racconto mitico lascia spazio al presente, non più terza persona ma il personaggio che dice io racconta l’arrivo ad Hora di una ragazza bellissima, bionda con gli occhi azzurri, che lascia incantati i giovani del paese. Chi è quella ragazza che torna ad abitare nella casa del padre? E’ la figlia di Antonio Damis. Cos’è successo, qual è la vicenda che ricuce questi due incontri? Ne abbiamo parlato con Carmine Abate che incontrerà i suoi lettori alla Corale Verdi sabato 28 alle ore 19,00.
Nel tuo nuovo romanzo Il mosaico del tempo grande si parla ancora del paese di Hora, con i protagonisti che cercano nel passato le ragioni del presente. La tua narrativa sta diventando una specie di saga alla ricerca della propria identità, alle radici e al mito fondante…
Io non riesco a concepire una storia che non parta da lontano, anche se alla fine ciò che mi interessa di più è il tempo presente. Solo che mi pare di inquadrarlo meglio, il presente, di raccontarlo più in profondità, recuperando le radici, le luci e le ombre della nostra memoria collettiva. Del resto, concordo con Canetti: lo scrittore è il custode della metamorfosi, cioè della memoria proiettata verso il futuro, verso il nuovo. Altrimenti il suo recupero diventerebbe nostalgia inutile, qualcosa di mummificato, incapace di dialogare con noi, oggi.
Una delle tue costanti come narratore di storie è l’epica, dove l’iniziazione di un giovane alla vita s’intreccia con quello del paese e della collettività.
Sì, perché, come impara ben presto il giovane protagonista del Mosaico, noi non siamo isole, interagiamo con una collettività che ha la stessa nostra memoria storica e i nostri miti, viviamo nello stesso “tempo grande” e non importa quando succedono i fatti: il tempo è grande se ti lascia una traccia dentro.
Parliamo della scrittura, fortemente espressiva, che mescola il dialetto arbëresh, degli albanesi in calabria, e l’italiano con una lingua inventata, suggestiva ed evocativa.
Io ho cercato di raccontare questa storia con una lingua che fosse la voce più autentica dei personaggi: profughi, giovani innamorati, contadini, artisti, papàs. Del resto, un romanzo funziona ed emoziona solo se si trasforma in parola vera, autentica. Ed evocativa, anche per lo scrittore. Quando sulla pagina s’impigliavano parole o frasi arbëreshe, calabresi o ibride, mi accorgevo spesso che erano come delle esche che mi portavano a galla delle storie: ognuna con il suo ritmo, con la sua voce, che ho provato a mescolare in un tessuto narrativo che però fosse ben comprensibile al lettore, che gli facesse godere il racconto. Lo sperimentalismo fine a se stesso non mi interessa.
Sei uno scrittore nato in Calabria, con radici arbëreshe, che vive e insegna a Trento, sposato con una tedesca. Sei uno scrittore calabrese ed europeo insieme, come vivi tutte queste anime?
Le vivo con naturalezza, utilizzandole per entrare in sintonia con il complesso mondo multiculturale in cui viviamo. Ovviamente non è semplice, e i miei libri sono un tentativo di mettere assieme come in un mosaico, appunto, le varie tessere della mia identità, le tante radici, vecchie e nuove, e considerarle non un problema o un ostacolo nel percorso di conoscenza, bensì una ricchezza.
Sei uno dei migliori scrittori della tua generazione, potresti indicarci alcuni autori di cui consiglieresti la lettura.
Dovrei fare un elenco lunghissimo perché sono un lettore onnivoro e amo tantissimi scrittori. Mi limito a consigliarne tre, diversissimi tra loro, ma accomunati da uno sguardo acuto e una grande tensione nella scrittura: John Fante, Sergio Atzeni e il Silvio D’Arzo di “Casa d’altri”.