panorama, 04.05.2006

La carica dei meticci alla conquista di Dante
di Roberto Barbolini

 

Un ciclo di incontri al Salone del libro di Torino (4-8 maggio al Lingotto di Torino) per testimoniare la vitalità della letteratura multietnica. Con una sorpresa: molti scrittori extraeuropei scelgono di esprimersi in italiano

Quanto aumenta di peso un ferro da stiro nell'arco della sua vita?
È vero che danneggiare la pianta del piede rende ciechi? Ancora: perché la Pepsi Cola è una bevanda giudea e la Coca-Cola no? Queste e altre cento domande si affollano nella testa di Alì, tra una scaramuccia fraterna e uno schiaffo affettuoso dell'adorata «maman», alla cui saggezza il ragazzino ricorre per ottenere risposta ai suoi perché.
Che bella infanzia a Teheran è quella raccontata da Hamid Ziarati nelle prime pagine di Salam, maman, appena edito dalla Einaudi.

Ma passa qualche anno e lo scenario cambia: dall'agonizzante regime dello scià al nuovo potere fondamentalista dell'ayatollah Ruhollah Khomeini, con un rogo finale di libri stile Fahrenheit 451 che suggella il romanzo di formazione di Alì, facendogli aprire gli occhi.

Dall' Iran di Ziarati al Paese dove non si muore mai (Einaudi), ovvero l'Albania dura e cruda del dittatore Enver Hoxha e dell'ortodossia comunista, che Ornela Vorpsi racconta in brevi lasse narrative attraverso l'infanzia e l'adolescenza d'una ragazzina che si chiama Ina, Eva oppure Ornela come l'autrice, e vive in una famiglia matriarcale perché il padre è stato incarcerato per oscuri motivi.
Attorno a lei, un mondo selvatico, ossessionato dall' invidia e dal pregiudizio, i cui canoni si possono condensare in un motto: «Vivi che ti odio, e muori che ti piango».

Salam, maman e Il paese dove non si muore mai sono due debutti narrativi che raccontano realtà diverse, ma hanno in comune un punto decisivo: la lingua. Entrambi, infatti, sono scritti in italiano.
Hamid Ziarati, ingegnere di professione e gastronomo per passione, è nato a Teheran nel 1966 ma da molti anni vive a Torino; Ornela Vorpsi, due anni più giovane, è nata a Tirana e vive a Parigi, ma ha studiato all'Accademia di Brera e ha scelto la nostra lingua per scrivere quella che definisce «l'autobiografia dell'Albania».

Ziarati e Vorpsi: due felici casi di spaesamento linguistico. Quest'anno ci saranno anche loro alla Fiera del libro di Torino diretta da Ernesto Ferrero, coinvolti nella seconda edizione del progetto Lingua madre assieme a una trentina di autori, quasi tutti extraeuropei, che traggono ispirazione narrativa dalla loro cultura tradizionale, traducendola però in una «lingua d'arrivo» diversa, solitamente l'inglese o il francese.

Ci saranno nomi noti come il marocchino Tahar Ben Jelloun e l'indiano Amitav Ghosh, poi il libico Ibrahim Al Koni, la neozelandese Patricia Grace, il turco anglicizzato Moris Fahri, il cubano Pablo Juan Gutierrez, esponente del realismo magico alla Márquez, nonché la scrittrice amazzonica Shirley Krenak e la mozambicana Paulina Chiziane, esponenti della cultura lusofona di Portogallo e Brasile, ospiti d'onore della fiera torinese.

Quest'anno il filo conduttore del Salone è l'avventura: tema vasto fin dalla sua etimologia, che significa le cose che accadranno.
Quando si dice la coincidenza: uno dei più grandi scrittori avventurosi in lingua inglese, il polacco Teodor Józef Konrad Korzeniowski, alias Joseph Conrad, è proprio il perfetto esempio anticipatorio del fenomeno focalizzato da Lingua madre. Ossia la capacità di traghettare il proprio mondo espressivo dall'idioma nativo a una lingua d'arrivo diversa, rispetto alla quale l'autore rimane sempre un po' straniero.

Il fatto nuovo è che questo fenomeno incomincia a dare risultati vistosi anche nella nuova narrativa italiana. Vorpsi e Ziarati non esauriscono certo la schiera degli stranieri italofoni presenti tra il 4 e l'8 maggio a Lingua madre.
Come l'algerino di Roma Ahmara Lakhous, già autore di Le cimici e il pirata e ora in uscita da E/o con Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. O come la guineana Aminata Fofana (La luna che mi seguiva, Einaudi); l'iracheno Younis Tawfik, con svariati libri editi dalla Bompiani al suo attivo; la tunisina quadrilingue Lilia Zaouali, che vive tra Torino e la Francia e ha pubblicato da Laterza L'Islam a tavola.

Dal Medioevo a oggi.
Dal Medioevo a oggi si dipana, tra flashback e trasposizioni temporali varie, anche il nuovo, intenso romanzo di Carmine Abate: Il mosaico del tempo grande, edito dalla Mondadori. Nato nel '54 in una comunità arbëreshe, cioè italo-albanese, della Calabria, da ragazzo Abate era emigrato in Germania e lì avvenne il suo esordio narrativo con Den Koffer und Weg!, ampliato nell'edizione italiana del '93, uscita col titolo Il muro dei muri.

Da allora Abate ha pubblicato diversi libri, tradotti anche all'estero, sempre estrosamente giocati su un mosaico linguistico che mescola l'italiano e il vernacolo calabrese con i suggestivi intarsi della lingua arbëreshe.
Lo fa, con maestria, anche in questo suggestivo romanzo scritto controvento, giocato su svariati piani temporali, dove una vicenda di formazione individuale si mescola a una storia quattrocentesca e la piazza assolata di Hora, in Calabria, può improvvisamente affacciarsi sull'Albania crudele di Hoxha.

Insomma: carta canta. E al sismografo della fiera torinese non resta che registrare il dato di fatto: come i dalmati del film La carica dei 101, gli scrittori extraeuropei o provenienti dai margini dell'Occidente vogliono a tutti i costi sfuggire alla perfidia omologatrice del monolinguismo, simile a una novella Crudelia Demon pronta a trasformarli in pellicce, ossia ad azzerarli nelle inerzie di un linguaggio convenzionalmente imposto.

Non è facile divinare quali saranno gli scenari futuri di questa deriva letteraria. Qualche traccia, forse, si può cogliere nei giudizi al vetriolo pronunciati in una recente intervista dal premio Nobel Vidiadhar Surajparasad Naipaul, indiano anglofono nato a Trinidad, a proposito dei grandi della letteratura anglosassone: da Charles Dickens a Ernest Hemingway, da Jane Austen a Thomas Hardy, giudicato privo di talento, per non dire di Henry James, definito «il peggior scrittore del mondo».
Pur con la tara della sua nota egomania, l'intento di Naipaul appare chiaro: ridisegnare a propria immagine e somiglianza il canone della tradizione letteraria nella quale si era inserito da straniero.
Una bella sfida, da qui a un secolo, anche per i nuovi meticci della lingua di Dante.