Paese Nuovo, 27.04.2006
 

 L’ODISSEA ARBERESHE, UN MOSAICO TRA I DUE MARI
 

“Non importa quando succedono i fatti, il tempo č grande se ti lascia una traccia dentro” suggerisce Carmine Abate nel suo nuovo romanzo “Il mosaico del tempo grande”, da narratore terzo, nascosto nelle vesti omeriche di Michele (Michegłzzo), ragazzo arberėshe, neolaureato in lettere, scriba odierno della storia. Ad Hora č approdato il mosaicista Gojąri con una prima nave di profughi nel 1990 dall’Albania. Gojąri č l’aedo dei tempi del tempo grande, l’uomo che porta con sé, le tessere del racconto della “prima Hora”, quella distrutta nei tempi di Scanderbeg, durante l’invasione dei Turchi e rinata in Calabria.

di Giuseppe Goffredo

  Gojąri č l’uomo del mosaico grande, l’artista artigiano paziente che nella sua bottega della “seconda Hora”, nella piazza centrale del paese, mette insieme ogni giorno i tasselli per costruire il racconto dei racconti: “le storie le abbiamo dentro e attorno a noi, io non faccio altro che raccoglierle come frutti da un albero e poi le fisso nel mosaico perché durino il pił a lungo possibile”. Tocca a Gojąri albanese fra gli arbėreshė, incollare, man mano che la narrazione va avanti, “Il mosaico del tempo grande” (ed. Mondadori), il nuovo, marqueziano romanzo di Carmine Abate. “Non importa quando succedono i fatti, il tempo č grande se ti lascia una traccia dentro.” Suggerisce Abate, da narratore terzo, nascosto nelle vesti omeriche di Michele (Michegłzzo), ragazzo arberėshe, neolaureato in lettere, scriba odierno della storia. Ad Hora č approdato il mosaicista Gojąri con una prima nave di profughi nel 1990 dall’Albanģa. Gojąri č l’aedo dei tempi del tempo grande, l’uomo che porta con sé, le tessere del racconto della “prima Hora”, quella distrutta nei tempi di Scanderbeg, durante l’invasione dei Turchi.
Sicché all’interno del telaio la tessitura del racconto si sposta avanti e in dietro, ai tempi della “prima Hora” saccheggiata quando il papąs Dhimitri Damis guida i profughi con una piccola barca fino alla Calabria; e ai tempi di oggi, quando un lontano antenato del papąs, Antonio Damis, impiegato comunale, decide innamorato di Drita ballerina del gruppo folk Shkėndija in tournee in Italia, di andare in Albania a cercarla. E dopo che i profughi fondano la “seconda Hora”, il figlio del papąs Jani Tista Damis nell’ultimo anno del secolo 1499, parte per l’Arber insieme a Giorgio Castriota, “i Ri, il nipote di Scanderberg, a liberare la nostra terra”. Ma la spedizione del “Ri” feudatario di Soleto e Galatone finisce in una disastrosa ritirata davanti all’esercito ottomano. Jani Tista raggiunge con Liveta, un ex combattente di Scanderberg, il luogo della “prima Hora”, distrutta, e quando scopre una terza Hora “ricostruita qua dietro la collina”, come gli dice il capraio Tanush, egli č deluso. Ed č lģ che trova la morte, trucidato dai turchi. Mentre nella Hora arberėshe, un giorno d’estate arriva Laura, una “bella stanga”, dai capelli “biondi, lunghi e ondulati”. La ragazza č figlia di Antonio Damis e Drita, la ballerina shqipėtara che Antonio ha sposato, emigrando-fuggendo, vent’anni prima in Olanda.
Da qui in poi, i fili del racconto si muoveranno nel corpo di una saga complessa e avvincente, movendosi fra il passato e il presente, il piccolo e il grande, l’Arberia e la Calabria, l’Italia e l’Europa, singole storie e grandi storie, in un tracimare man mano di acque, approdi, partenze, arrivi, attese, segreti tasselli pubblici e privati, amori, fatiche, fughe, vendette, sbarchi, coraggio, abnegazioni, tesori, che hanno come protagonisti un piccolo paese, Hora, e una piccola comunitą arberėshe. Davanti: il luccichio inquieto del “mare nostro”, come Carmine Abate nomina, in modo paesano il Mediterraneo, togliendogli l’alone romano imperiale, ribattezzandolo cosģ mare di genti, genti delle acque adriatiche e ioniche, che cercano di comporre, ricomporre la propria storia.
Pezzi e pezzi di un mosaico necessari a disegnare una grande identitą, una identitą plurale. Una storia fatta di storie. Uno specchio fatti di specchi. E ogni specchio si riflette negli altri. E il “mare nostro” sta in mezzo. Mezzo senza fine. In cui le barche, i gommoni, fra le due rive, Albania, Puglia, Calabria, conducono, antiche e nuove genti, non risultato di una storia di eserciti, bramosie di conquiste, di sangue, ma frutto di popoli in cerca di rifugio, di lavoro, di terre da arare, grano da seminare, alberi da piantare, cittą da fondare, pace. Sicché sulle spalle di quel grande, corale, instancabile movimento, Carmine Abate sembra suggerire, quello che davvero si muovono sono immaginazioni, speranze, memorie, reliquie, religioni, lingue, linguaggi.
E per questo che l’autore, anche poeta, inventa per questo romanzo ma l’aveva fatto anche in altre sue opere (“Il muro dei muri”, “Il ballo tondo”, “La moto di Scanderbeg”, “Tra due mari”), una lingua di mezzo, una lingua arberėshe, calabrese, italiana, albanese, meridionale: fucazioni, bottafichi, arrassussģa, pettinisso, sanizzi, caldioso, invechisciuti, vermitura, kasmadilo, ciotič, cervelluzzo, sciccoso...
E sentite quante variazione in poche righe della parola garofolo: garofano, garofoli, garofolicchio. A seconda che a parlare e za Maurélja, anziché Laura, la figlia di emigranti nata č vissuta in Olanda e che mastica anche lei per via del padre Antonio Damis un po’ di arberėshe, ma insieme parla anche l’albanese: “lei aveva vissuto un’infanzia felice, parlando con loro un miscuglio di arbėresh e albanese, e fuori di casa l’olandese, imparando con il padre l’italiano, il tutto con naturalezza, senza grossi problemi”. Mentre il piccolo Zef, un bambino salvato dalle acque dell’Adriatico durante un drammatico inseguimento fra polizia italiana e scafisti, urla “in tre quattro lingue”. D’estate, invece, quando Hora, si riempie di “germanesi”, ovvero di emigrati tedeschi, l’arbėreshe calabrese si mischia anche al tedesco, e via via in un meticciato corrente.
Lingua, lingue, di “mezzo”, appunto. Mezzo, anche questo, senza una fine, che va a codificare precisamente la cifra della realtą presente. L’empirģa di una comunitą, che in questo modo puņ ricostruire la forma del proprio racconto. Innestare i fili della diaspora. Ricomporre la dispersione: “Hora, Shqipėria, Tirane, Italia, Calabria, Arberia, la prima Hora”. Spicchi di specchi, nicchie di storie, che riflettono specchi pił grandi metafore di come gli esseri umani si muovono nel tempo, in una pluralitą molteplice e affollata, che la lingua e la struttura del racconto, attraverso il narratore dovrebbe riportare a ecceitą possibili: momentanee unitą.
Ma non č proprio questo il segreto e il dovere della letteratura? Ritrovare strade, riproporre sensibilitą, costruire e ricostruire identitą aperte, possibili, che torneranno a rieplodere, ma che nel gioco all’infinito, devono pure nutrirsi di nuovi e attendibili equilibri, che in letteratura sono codificate dal linguaggio e dallo stile: forme di “mezzo”. Che nella realtą sono mare di mezzo, rema fra le rive, erranza di gente, incontro di memorie e immaginazioni. E questo che a mio avviso con i suoi libri da sempre suggerisce il cantastorie arbėreshe Carmine Abate.
Cosģ, nell’epica circolare de “Il Mosaico del tempo grande”, gli approdi, da una parte e dall’altra, fra i due mari, finiscono per essere non arrivi, ma ritorni. Nostos del ritorno. Eterno ritorno, di un tempo perduto e ritrovato, di vecchi giovani, di padri, figli, generazioni, culture, civiltą. Allora il Sud, per Carmine Abate, č una terra di Mezzo. Un movimento nel tempo e nello spazio, con infiniti ritorni ed erranze, pezzi di una storia che per essere capita ha bisogno di essere seguita nella erranza, come i narratori mediterranei sanno: penso a Orhan Panuk, Abd ar-Rahman Munif, Abraham Yehoshua, Amin Maalouf, Amos Oz, ma anche al siciliano Stefano D’Arrigo.
Nulla oggi puņ essere scritto e davvero capito del Sud, se non dentro questi orizzonti lunghi e larghi. Se non si č capaci di seguire e ricreare questi movimenti; se non si riesce a collegare i tempi piccoli ai tempi grandi; il Sud rimane prigioniero di narrazioni chiuse, vischiose, statiche. Questo gli scrittori mediterranei lo sanno: pugliesi, calabresi, albanesi, greci, palestinesi, egiziani, turchi, marocchini. Sanno come le rive del Mediterraneo sono porte aperte, e questa non č l’invenzione di una figura retorica, ma esattamente quello che si consuma nelle nostre realtą complesse. L’identitą allora, č per noi, una sorta collage Dada di tradizioni, religioni, saperi, techne... E nulla di tutto questo č negoziabile nella nostra mente. Il racconto mediterraneo si nutre di inclusioni antropologiche e non di rifiuti. Il problema č rendersi conto di quanto č grande l’eco di tale soggettivitą.
“Il mosaico del tempo grande” č la prova pił matura e convincente di Carmine Abate, una avvincente cent’anni di solitudine arbėreshe meridionale, e questo grazie alla profonda consapevolezza di tale koinč.