Corriere della sera, 14.03.2006

A colloquio con lo scrittore calabrese, arberesh, nato a Carfizzi,
che ha vissuto in Germania e da anni risiede in Trentino

Abate, quando la biografia è geografia
Il romanziere: “Cercare la propria identità significa sapere da dove si è partiti”
di DANILO FENNER

  Chi l’ha detto che le radici devono per forza penetrare in un terreno? A Reggio Calabria, su quel meraviglioso lungomare che D’Annunzio definì “il più bel chilometro d’Italia”, crescono rigogliose piante esotiche, fra cui molte magnolie, le cui radici aeree serpeggiano fuori dalla terra e si confondono coi rami. Questa immagine delle fantastiche radici delle magnolie di Reggio (un’espressione che suonerebbe già come un bel titolo per un film à la Tim Burton) me l’ha suggerita Carmine Abate, che siccome fa lo scrittore – e gli riesce anche piuttosto bene – di belle immagini si intende parecchio. Parlavamo di identità. Di radici e di memoria. E mentre durava la nostra chiacchierata e lui, da quel grande affabulatore che è, parlava e sprizzava luce dagli occhi, ecco che viene fuori questa cosa delle radici che mica per forza devono scendere verso il basso. “Ci sono radici che si conficcano saldamente nella tua terra – mi dice – e sono le più antiche. Poi ci sono radici più giovani, meno profonde. E altre che possono anche svilupparsi fuori dal terreno, verso l’alto. Io di queste radici ne ho messe molte. Una per ogni luogo in cui ho vissuto. Anche in Trentino, naturalmente”. Mi guarda e mi sorride con quel suo tipico sorriso beffardo. “Diciamo che queste sono radici di melo”.
A volte la botanica aiuta. Anche quel poveretto al quale un tizio di nome Gesù, duemila anni fa a Betsàida, restituì la vista, siccome dallo stupore che gli strozzava la gola non trovava più le parole, fece ricorso alla prima immagine che gli venne in mente. Gli alberi. Così, quando quel Rabbi gli chiede “Riesci a vedere qualcosa?” lui si guarda intorno per qualche istante, ancora abbacinato dalla luce, e poi risponde sicuro: “Sì, vedo degli uomini. Ma mi sembrano alberi che camminano.” Ecco, io credo che Carmine Abate sia un albero che cammina. Una pianta che ha messo radici profonde, altre più giovani e più superficiali, altre ancora addirittura fuori dal terreno. Italiano, calabrese, arbëreshe, ha vissuto in Germania, da anni risiede in Trentino. Una biografia che è una geografia.
Ci sono vocazioni letterarie che nascono all’improvviso, altre che sono sempre state lì, pressanti come il vapore in una caldaia, pronto a erompere di fuori. C’è il desiderio di scrivere. E c’è l’urgenza di farlo. “Io non ho fatto altro che raccontare di queste radici” mi spiega Abate, che siccome è malandrino non riesce a trattenere una boutade sorniona: “anche se non mi sono mai posto il problema dell’identità, prima di scrivere ogni libro”. Fa effetto, in bocca a uno che negli ultimi anni si è ritagliato uno spazio importante nella letteratura italiana ed europea con una serie di romanzi tutti incentrati proprio sul tema della ricerca dell’identità, individuale e collettiva. “Ma io non sono un teorico dell’identità” precisa. “Mi interessa raccontare. Le cose poi vengono fuori da sole, in modo del tutto naturale. Non le studio mai a tavolino”.
Abate costruisce da anni una sorta di nuova mitologia arbëreshe, reinventando la memoria della piccola comunità di albanesi trapiantata da secoli in Calabria. Un microcosmo elevato a paradigma universale: intelleggibile a tutti, anche a chi abbia scarsa dimestichezza con albanesi e arbëreshe. Forse è anche per questo motivo che i suoi libri riscuotono ovunque un grande successo: dai primi “Il ballo tondo” e “La moto di Scanderbeg” agli ultimi “La festa del ritorno” (Premio selezione Campiello) e il recentissimo “Il mosaico del tempo grande” (Mondadori), è un crescendo di ristampe e di edizioni (ben cinque per “La festa del ritorno”, mentre dell’ultimo sono state “bruciate” in pochi giorni diecimila copie). Numerose anche le traduzioni. I libri di Carmine Abate sono pubblicati in Francia, Germania, Portogallo, Olanda, Albania, Kossovo e Grecia. Altri Paesi si aggiungeranno presto.
Non è che siano libri “facili”, densi come sono di echi storici, strutturati su piani narrativi diversi, popolati di decine di figure, per di più scritti in una lingua che ne contiene altre e che non disdegna neppure i neologismi. Ma sono libri in cui il lettore di oggi, che vive in un mondo inquieto e rischia di smarrire la percezione di se stesso, può finalmente ritrovarsi. Perché, a forza di ripeterci che l’identità è come una maglietta (vedi il grande sociologo polacco Baumann, autentico maitre-à-penser di questi ultimi anni), che si può togliere o indossare con molta facilità, si rischia di restare nudi. Abate ci tiene a chiarire questo punto: “Attenzione, io sono convinto che l’identità di ciascuno di noi sia una sola. Però è un’identità complessa, variegata e multiforme. Ed è quella che racconto nei mie libri. Intesa in questo modo, l’identità è in continuo movimento, molto dinamica. Ecco perché sbaglia chi voglia recuperare una presunta vera identità, fissata una volta per sempre. E’ un’operazione sbagliata e anche pericolosa, come purtroppo la storia ci insegna”.
C’è una bella immagine nel suo ultimo romanzo. Lo studio di Gojàri, un valente mosaicista, una notte viene messo a soqquadro da ignoti balordi. Il mosaico a cui il maestro stava lavorando, e che raffigura una scena della mitologia albanese tradizionale, viene deturpato. Gojàri non si scoraggia, è certo di poterlo riparare. “Però non sarà più quello di prima”, commenta. Ciò che siamo non si può distruggere. Cambia, si evolve. Ma siamo sempre noi.
Tutte cose che Carmine Abate ha scoperto e sperimentato sulla sua pelle, da emigrante in Germania. “Per i tedeschi io ero naturalmente uno straniero. Per gli altri stranieri che vivevano là, ero un italiano. Per gli italiani emigrati in Germania, i cosiddetti germanesi, ero un meridionale. Per gli altri meridionali, un calabrese. Per i calabresi un Ghjèghjo, cioè un arbëresh. E infine, per i miei compaesani, quando ritornavo fra loro, ero un germanese… Io mi sono sempre sentito semplicemente me stesso. Sono gli altri, spesso, a porsi per te il problema della tua identità, a identificarti appunto”.
Se l’identità è una cosa complessa, come raccontarla? “In modo complesso. Per questo, i miei libri hanno una struttura narrativa ramificata, che procede per sovrapposizioni, rimandi, cerchi concentrici. E per questo, la lingua che utilizzo è una lingua anch’essa stratificata e contaminata”. C’è chi dice che i tuoi libri, in fondo, siano in qualche modo legati tra loro… “In effetti, è come se avessi scritto finora un solo grande libro, quello che un tempo era chiamato un romanzo di formazione, con un unico personaggio principale, che io seguo da quando è bambino fino all’età adulta. Come ho detto mi interessava scandagliare il tema dell’identità e della memoria. Ma un’identità complessa non poteva essere ristretta in un solo libro”.
Appartenere a una comunità minoritaria (gli albanesi di Calabria così come i ladini delle Dolomiti) irrobustisce la capacità di districarsi fra le varie forme che la nostra identità assume in una società, come quella contemporanea, che è già complessa di suo. “In passato, una identità minoritaria era considerata un ostacolo, un grave handicap” spiega Abate. “Oggi è sicuramente una ricchezza. Purché si abbia la capacità di aprirsi al mondo”. Gli arbëreshe da cinque secoli parlano la lingua dei loro avi albanesi. L’hanno conservata gelosamente e tramandata di padre in figlio, dice Abate, convinti che perderla avrebbe significato perdere se stessi. Li si potrebbe immaginare perciò arroccati in un secolare isolamento dal mondo. E invece, gli arbëreshe – che già nel ‘500 permisero i matrimoni misti – si sono integrati perfettamente con la terra che li ha ospitati, hanno girato il mondo, hanno mantenuto alcune tradizioni e molte altre hanno assimilato da comunità esterne, anche lontane.
“Ecco, cercare la propria identità significa proprio questo: sapere da dove siamo partiti, ma ignorare gli approdi futuri del nostro viaggio. E comunque andare, muoversi”. Per spiegarsi meglio, Abate ritorna sulla metafora del mosaico: “Un mosaico è formato da molte tessere, ma anche dagli spazi bianchi fra una tessera e l’altra: quasi delle stradine misteriose che non si sa dove ci conducano. Analogamente, quando scrivo, cerco di fare in modo di non dire tutto. Sarà il lettore a cogliere il non detto che sta fra gli spazi bianchi dei miei romanzi”.
C’è una parola albanese, Moti i Madh, che si pronuncia come un sospiro, con l’alito che soffia fra i denti e la lingua. Significa “tempo grande”, ma la traduzione italiana la impoverisce. E’ il tempo che agisce dentro di noi e ci cambia. “I fatti della nostra vita ci lasciano dentro una traccia profonda. Cercare la nostra identità è seguire quelle tracce” commenta lo scrittore, che ricorre a un esempio concreto. “Per me è stato fondamentale venire a vivere in Trentino. Perché attraverso lo sguardo di mezzo che questa terra mi ha fatto acquisire ora posso vedere la mia vita e i vari mondi che ho conosciuto con la giusta distanza”. La giusta distanza che dobbiamo tenere, ad esempio, quando guardiamo un’opera d’arte. Un dipinto. O un mosaico. Né troppo da vicino, per non concentrarsi soltanto sugli spazi bianchi, né troppo da lontano.
“Non importa quando succedono i fatti, il tempo è grande se ti lascia una traccia dentro” scrive Carmine Abate in uno dei passaggi più “didascalici” e tuttavia più riusciti del suo ultimo libro. E’ l’incipit del capitolo 15. “Per esempio, una fuga senza meta, l’ombra di vento che ti insegue ovunque, oppure uno sguardo innamorato e il sapore della liquirizia, la felicità che appena la sfiori si allontana di un passo come un orizzonte dispettoso. Ecco: queste tracce dobbiamo cercare e seguire. Queste braci vive, in cerchio, sotto una montagna di cenere. Per andare dove, amici, non lo sa nessuno”.