Il corriere del Trentino, 28.01.2006
(Allegato al Corriere della sera)

Le tessere del tempo nel nuovo romanzo di Carmine Abate
di Luca Coser

  Carmine Abate. Uno lontanissimo dall’idea che ci si può fare di scrittore nato e cresciuto in trentino. Per ragioni caratteriali, certo, soprattutto per una considerazione un poco surreale ma che ci azzecca: a Besenello un vulcano proprio non riusciamo a immaginarcelo, se non trapiantato dal sud. Proprio ieri si parlava tra amici di un bel libricino Sellerio dell’89, Storia abbreviata della letteratura portatile, di Vila-Matas, nessun riferimento con lo scrittore calabrese ma…
Ma cos’é Carmine se non un artista che delle sue origini ha fatto un’opera letteraria portatile? Sarà per lo sguardo morbido e solare, per la sua incredibile propensione a parlare sempre e per lungo tempo e di qualsiasi cosa, o per il volto olivastro e i baffi curati, ma è’ difficile parlare con lui senza immaginarselo nella sua terra. E questo, noi crediamo, perché le sue storie sono divenute il suo territorio. Carmine Abate abita e lavora in Trentino, ma sembra vivere nei paesaggi arbëresh della Calabria, tra la sua gente e i loro racconti. Si porta appresso il suo mondo come Duchamp faceva con la sua Boite-en-valise, e leggendo le sue storie di emigranti ci viene da pensare che forse ha ragione, l’arte della memoria e delle tue radici te la porti dentro, e a questo punto la valigia diventi tu.
Il mosaico del tempo grande è il titolo della sua ultima fatica, per i tipi Mondadori. E’ un romanzo molto bello e seducente, caldo. Anzi, caldissimo, e ne senti le vampate appena ti avvicini ai personaggi. Un calore che racconta di un popolo, quello albanese-arbëresh trapiantato quattro secoli fa in Italia, ma, più in generale, di quel popolo meridionale che sa accoglierti allargando le braccia, la cui presenza ti avvolge con costante lentezza e ti accompagna attraverso un presente che si amalgama incessantemente con la storia passata. E il romanzo è proprio così, frutto di un vulcano meridionale, non della sua violenta e spettacolare eruzione ma di quello che viene subito dopo: la lava che scende dai pendii, ardente, lenta, forte del suo mito, della sua storia, in attesa di rafferddarsi non prima di avere chiuso dentro di sé e per sempre ciò che ha trovato sul suo cammino.
Il libro è scritto con grande sapienza, linguaggio ricercato, costruito in modo preciso. Ricorda un edificio forse non molto avveniristico ma solido e dalle forme sinuose, immerso nella luce della giornata che finisce, le finestre che si accendono e spengono in modo misterioso, in forme inaspettate, dando la netta sensazione che all’interno si svolgano vite reali, lontane dallo spettacolo artificiale e mediatico che molte narrazioni di oggi esaltano troppo spesso. Per il resto ci sentiamo ancora una volta di segnalare quello che forse allo scrittore sarà venuto a noia, ovvero la presenza, in questa sua ultima fatica come nelle passate, di quel “realismo magico” alla Marquez che intreccia con grande abilità e sentimento i destini dei singoli personaggi con quelli di una comunità sempre presente, sopra e sotto, tutto intorno. Una capacità che Abate manipola senza retorica e con originale tessitura, strappando al lettore complici emozioni.
La storia è semplice. Ma si articola con appassionante intreccio, scivolando di continuo su più livelli narrativi. Troviamo una comunità albanese che nel ‘400 sbarca sulle coste italiane e i suoi discendenti odierni, amori gioiosi e diperati intrecciati da un filo comune tanto sottile quanto resistente, come il tempo che passa e “non fa strusci”, anche se lascia il suo solco. Certe parti del libro risuonano come il “dolore bastardo” che Antonio Damis prova fregando il peperoncino su una ferita aperta, altre come il garofano che Rosalba dona a Michele, nascondendo il volto dietro la mano aperta. Sopra tutti, Goiàri, Boccadoro, affabulatore e artista del mosaico che costruisce le sue figure come Carmine Abate sembra voler costruire la sua scrittura, cercando di raccogliere la poesia dalle pieghe della storia per fermarla come si fa con le tessere preziose. Perché questo hanno di buono i mosaici, dice Goiàri, che durano più degli affreschi, più dei quadri e delle parole, più di noi.