Calabria Ora, 17.03.2006

“Calabria, tessera del mio mosaico”
di Mirko Altimari

  Un incontro ricco di riflessioni, spunti, coinvolgimento emotivo e confessioni a 360º, Carmine Abate non si è risparmiato nell’ennesima tappa del “tour” di presentazione del suo nuovo romanzo, Il mosaico del tempo grande, appena pubblicato dalla Mondadori: «il romanzo della maturità» come è stato definito dallo scrittore Antonio Franchini che ha affiancato l’autore arbëresh l’8 marzo in una affollata Feltrinelli di Corso Buenos Aires a Milano. Nonostante il giorno feriale e l’orario pomeridiano erano davvero in tanti ad ascoltare, attenti, lo scrittore calabrese: le lunghe file al termine dell’incontro per avere il libro autografato testimoniano il successo della giornata.
La sala era salomonicamente divisa in due “macro categorie” di lettori: i fedelissimi, i tanti arbëreshë di prima o seconda generazione emigrati, per lavoro o studio a Milano, e quelli che Abate chiamerebbe i “litir”, gli italiani, non meno interessati dei primi al magico miscuglio di emigrazione, passione civile e rapsodie ancestrali che l’autore riesce a creare ad ogni lavoro, sulla scorta di un filone molto delineato nelle altre letterature europee, vale a dire la scoperta delle patrie di origine.
Più che una presentazione classica quella svoltasi a Milano ha ben presto assunto i caratteri di una sorta di intervista collettiva all’autore che, incalzato dai pertinenti spunti di riflessione di Franchini, tra l’altro editor della casa editrice Mondadori, si è messo a nudo per il suo pubblico. Il suo percorso di scrittore nasce a sedici anni, in Germania, dove i genitori si erano trasferiti per lavorare: è proprio in terra tedesca, che Abate da bimbo immaginava essere con una immaginifica espressione «come un orco, un drago che aveva allontanato mio padre da me» conosce la durezza dell’emigrazione, la quale ha come leitmotiv «una parola che viene pronunciata decine di volte al giorno dagli emigrati: sacrificio». È la rabbia per le ingiustizie sociali dunque la scintilla che fa nascere la volontà di scrivere. Ma allo stesso tempo è proprio da quell’osservatorio esterno che per la prima volta si interessa veramente alla sua comunità, a Hora, la quale nei suoi romanzi non rappresenta solo il paese dell’anima (Carfizzi) ma un mondo “magico”,una sorta di Macondo che racchiude tutta l’Arbëria, ma che fino ad allora egli aveva conosciuto solo per mezzo delle rapsodie e delle narrazioni orali che da cinquecento anni, di generazione in generazione, gli arbëreshë si tramandano.
Lo straordinario pastiche linguistico che emerge dai suoi romanzi, come Abate ci tiene a precisare, non è qualcosa da vedere in maniera “esotica” o quasi folkloristica, bensì si tratta di una necessità imprescindibile: «sono queste parole che mi portano alle storie, non il contrario. Sono le parole che si impigliano nelle pagine».
L’altro polo dialettico della letteratura dello scrittore sono i Germanesi: gli emigrati in Germania, sradicati, visti da tutti con sospetto: «per i tedeschi ero un italiano, per gli italiani un calabrese, per i calabresi uno “ghiegghio” e per quest’ultimi un germanese» ed ecco che il cerchio si chiude. Ma bisogna aver consapevolezza di come questo può essere una ricchezza per l’individuo, una persona può essere più cose contemporaneamente, anche perché il mito dell’identità unica è falso e «anacronistico oltre che pericoloso».
Questa circolarità appena accennata si riscontra anche nella scrittura di Abate, i cui romanzi lungi dall’essere costituiti da storie lineari sono ricchi di continui andirivieni temporali. Ne Il mosaico del tempo grande lo scrittore tenta, riuscendoci, una sintesi di tutta l’epopea dell’Arbëria, dal 1400 ad oggi. Estremamente efficace la metafora del mosaico, le tessere che lo compongono vanno a formare un tutto, che solo alla fine si definisce, ma ogni pezzo mantiene comunque la sua identità: «Questo hanno di buono i mosaici: che durano più degli affreschi, più dei quadri e delle parole, più di noi».

INTERVISTA

Albania: sogno, ossessione e tradizione
Le opere dello scrittore arberesh conosciutissime anche nelle università estere
di Mirko Altimari

Carmine Abate riesce in un raro mix che probabilmente molti suoi colleghi gli invidiano: essere uno scrittore di popolo ma assai ben visto anche dalla critica più alta. Del resto come ha affermato Antonio Franchini nel corso della presentazione, l’opera di Abate è conosciutissima persino nelle università estere.

Si sente portatore di una responsabilità collettiva, una sorta di scrittore della comunità?

A partire dagli ultimi libri usciti da Mondadori mi accorgo e constato che in moltissimi si identificano nelle mie storie, nei miei personaggi. Però da qui a dire che in me ci sia la volontà di rappresentare tutto il mondo arbëresh…Questo no. Diciamo che, mio malgrado, ne rappresento il mondo non fanatico. Il fanatismo è un rischio di qualsiasi minoranza. La nostra forza, invece, è il non esserci mai rinchiusi a riccio, ci siamo aperti al mondo esterno, è proprio per questo che siamo riusciti a mantenere la nostra lingua e, in parte, le nostre tradizioni.

L’ultimo romanzo è quasi una sorta di romanzo dell’epopea degli arbëreshe, dalle origini ai giorni nostri. Quale è stato il suo rapporto con l’Albania?

Come per molti di noi, è sempre stato un sogno, quasi un’ossessione ritornare nella terra da cui erano partiti i nostri antenati. Ho avuto la possibilità di visitarla anche prima della caduta del regime comunista. E ricordo molti episodi che racconto nel romanzo: ad esempio, quando tentai di fotografare un bambino scalzo e col moccolo al naso e mi fu impedito dall’ “accompagnatore” albanese. Ma soprattutto mi è rimasta una immagine: Piazza Skanderbeg, la piazza al centro di Tirana, vuota, nemmeno una macchina. E solo un signore che pedalava, lento, sembrava che facesse fatica a trascinare la sua ombra. E intorno un silenzio irreale: quello che precede le grandi tempeste.

L’altra parte del suo cuore e della vita: la Germania. Cosa ha rappresentato per lei?

Per me la Germania è stata importante come uomo e come scrittore. Dopo aver provato la rabbia per l’ingiustizia dell’emigrazione, dopo aver vissuto le difficoltà di integrazione e persino il razzismo, in un secondo momento ho apprezzato anche le cose positive che poteva offrire la Germania: la possibilità di conoscere un’altra lingua, un’altra cultura, di acquisire nuovi sguardi, altre storie, radici diverse. In altre parola, ricchezza culturale e umana. Dunque ho capito che la mia non doveva essere una scelta radicale, quasi di vita o di morte simbolica, o qui o lì: e infatti ho deciso di vivere qui e lì.