Il Giornale
6 marzo 2002

La Calabria felix che conobbe Dumas

Memoria e attualità in “Tra due mari” di Carmine Abate

di Mario Santagostini


Hans Leopold conte di Stolberg-Stolberg fu una figura minore della letteratura tedesca. Diplomatico, letterato e amico di letterati. Seguendo la moda del suo tempo (il Settecento) fece un viaggio "mediterraneo" e ne diede un resoconto epistolare che pochi tra noi hanno letto. Del francese Alexandre Dumas invece sappiamo e abbiamo letto (quasi) tutti molto. Cosa hanno in comune i due autori? Nulla, salvo l'aver visitato, a distanza, l'Italia. In uno dei suoi punti più suggestivi: il Fondaco del Fico, locanda presso Roccalba, paesino della Calabria. Su una collina lì vicino si possono vedere con un solo colpo d'occhio Tirreno e Ionio. Nessun altro punto della penisola è tanto stretto. Dumas vi passò una notte non memorabile, insieme al pittore Jadin (che fece uno schizzo del luogo) e a un cane. Era l'ottobre del 1835. Il gestore della locanda si chiamava Gioacchino bellusci. Il cognome evidenzia origini albanesi, comuni ad altri lucani e calabresi i cui antenati arrivarono cinque secoli fa e conservano tutt'ora una loro lingua a suo modo strana: un albanese evolutosi lontano dalla terra d'origine, poco contaminato con i dialetti locali e con l'italiano (salvo alcuni termini tecnici) e che fa la felicità dei glottologi. L'oste che conobbe Dumas era, tra l'altro, antenato del protagonista d'un romanzo che si raccomanda di leggere, e che si intitola non a caso Tra due mari (Mondadori, pagg. 198, euro 14.60). Romanzo nel quale si ricostruisce una gran saga familiare avviatasi da lontano e arrivata a noi. Ma dove si racconta anche come, ciclicamente, chi viene dal nord subisce il fascino del luogo. Il Fondaco del Fico, allora, assume il ruolo di località mitica, destinale: polo d'attrazione attorno al quale s'incrociano vite e vicende. Dopo Stolberg e Dumas, negli anni Cinquanta arriverà anche Hans Heumann, giovane fotografo tedesco in cerca di colori forti, immagini violente e solari, squarci assoluti. Vedrà quelle che erano diventate le rovine della locanda. Il figlio sposerà una Bellusci. E questo ci rimanda ancora al protagonista, incrocio di etnie e identità. A lui toccherà assistere a vicende spesso tragiche. Ma vedrà la locanda riattata, trasformata in albergo. Ricostruire il Fondaco, trasformarne le rovine in un albergo: era il sogno conscio e ostinato d'uno degli ultimi Bellusci. Il sogno inconscio, forse, era anche più forte: ripristinare, ridare continuità a lunga storia segnata da movimenti a pendolo dal nord e dal mondo al centro della Calabria. Non so quanto di autobiografico ha messo Carmine Abate in questo libro: penso molto. E non so quanta storia reale contiene il romanzo: una buona quota, credo. E ancora: ignoro quali luoghi sono sognati, quali davvero raggiungibili. Domande che contano assai poco. Perché in queste pagine scritte con impeto e a volte con una gioia viscerale di raccontare, la storia (cosiddetta) testata, l'immaginazione narrativa, i ricordi di famiglia e i paesaggi interiori si incrociano, si confondono l'uno nell'altro. Ed è, in un romanzo, una gran cosa. Inusuale.