Migrazioni e partenze nel romanzo
"Il mosaico del tempo grande" di Carmine Abate

 di Michele Gangale 



1 -
Il tempo grande e il mosaico

L'espressione “Moti i madh” (Tempo grande) conosciuta tra le comunità arberische viene adoperata per indicare eventi suggestivi e lontani, raccolti e rielaborati nelle leggende e nelle rapsodie, che narrano vicende eroiche e catastrofi, legate alla invasione turca dell'Albania nel XV secolo, la fuga di alcune popolazioni dai territori dell'Albania meridionale e della Morea in Grecia, in seguito alla disfatta e alla caduta di Costantinopoli, riferimento forte della fede cristiano ortodossa per quelle popolazioni, raccontano la traversata per mare per raggiungere le regioni rivierasche dell'Italia meridionale, dove, dopo una fase di grande precarietà e di nomadismo, rifondano proprie dimore, o dove ripopolano paesi svuotati dalla peste o dalla fame. L'approdo in Calabria era reso possibile sia perché le regioni rivierasche italiane erano vicine alle sponde albanesi e greche, sia perché buoni erano i rapporti tra principi albanesi e aragonesi che governavano l'Italia meridionale.
Il “tempo grande”, dunque, si configura quale tempo leggendario e lontano, segnato nell'immaginario comune da pochi fotogrammi - l'incendio del villaggio e la fuga - di cui restano tracce nelle leggende della tradizione orale e in alcune struggenti rapsodie.
Nel romanzo Carmine Abate riconsidera il mito del “ tempo grande”, lo innesta nella complessità della trama, lo proietta nel presente, lo fa balenare nel futuro, lo ri-definisce e lo attualizza: assume dunque quel mito lontano, gli dà visibilità narrativa, ne sottolinea la rilevanza sociale ed esistenziale:

Non importa quando succedono i fatti, il tempo è grande se ti lascia una traccia dentro. Per esempio, una fuga senza meta, l'ombra di vento che ti insegue ovunque, oppure uno sguardo innamorato e il sapore della liquirizia, la felicità che appena la sfiori si allontana di un passo come un orizzonte dispettoso. Ecco: queste tracce, dobbiamo cercare e seguire. Queste braci vive, in cerchio, sotto una montagna di cenere. Per andare dove, amici, non lo sa nessuno. Tu parti, questo sai, come è partito Jani Tista Damis, ignaro della meta più profonda, convinto di ritornare quando vuole. Invece si perde per sempre, e con lui il suo ricordo. Però lascia una traccia dentro Antonio Damis, un grumo duro di cocciutaggine, il sogno del ritorno. (p.116)

Il “tempo grande” è tempo interiore, è il tempo che si misura con lo sguardo profondo dell'anima, con uno sguardo e un approccio nuovi, il tempo che lascia segni, tracce, dai contorni forse labili e imprecisi, ma che mettono in moto pulsioni psichiche, risvegliano un bisogno di significati, per la propria vita e per la vita comunitaria. E' il tempo della sosta e della contaminazione d'amore, che Gojari e Laura conoscono, allorchè contemplano il mosaico e si stupiscono in un “abbraccio leggero”, davanti al mosaico.
Esso è il tempo della sosta, della sosta dopo le fughe, della riflessione sulle fughe, e sulle partenze, esprime il bisogno di riconoscere i segni, le tracce, di ritrovare un villaggio nella memoria, ovvero un gesto, uno sguardo, un incontro, una parola o un paesaggio cui aggrapparsi, per proseguire il cammino difficile tra le diverse dimore.
Tali prospettive trovano nel romanzo passaggi narrativi di grande intensità: certo, col passare dei secoli si è smarrita la memoria del rientro nella prima hora di Jani Tista Damis, ma tale evento lontano, sbriciolatosi nel tempo, lascia una traccia nell'animo di Antonio Damis, una traccia che lo induce a cercare e che lo porta verso la prima Hora ad ascoltare l'uomo che ha raccolto da altri ed ha custodito nell'animo la memoria di quegli eventi lontani, il padre di Gojari:

E quando finalmente conobbe quella storia,, abbracciò l'uomo che gliel'aveva raccontata e gli fu grato per tutta la vita. (p.116)

Gratitudine e affetto, dunque per chi è portatore di memoria, per chi alimenta l'incontro, la conversazione affettuosa, l'invito alla sosta. L'emozione è legata alla rievocazione e al dono di un frammento, come dire che talvolta chi restituisce un frammento di memoria, restituisce la vita.
Questa è la faticosa direzione verso cui camminare, anche se l'uomo contemporaneo conosce la precarietà e il disincanto, anche se non sappiamo verso dove andiamo, anche se le tracce covano “sotto una montagna di cenere”. Di fronte a un destino di cenere, ancor più si rivela intenso il mito del tempo grande. Nel romanzo troviamo parole e fermenti narrativi che rendono lo scrittore partecipe della modernità segnata dal disincanto, dal disorientamento, dalla consapevolezza del limite. Ma nonostante tutto la scrittura esprime e continua ad esprimere il varco del tempo grande, il bisogno di continuare a cercare pazientemente, “con cocciutaggine”, significati, continua a rievocare, ad esplorare, con sguardi nuovi. Viene in mente quanto si dice di Hora: c'è una parte visibile del paese, scandita dalle feste, dagli amori, dagli abbandoni giovanili, dalla propensione, a tratti, a recitare enfaticamente ruoli come se Hora fosse anche una scena teatrale, dalle giornate afose, dalle arrabbiature nella conversazione, dai cibi (le “purpette”,...), una parte che lo scrittore si diletta a tratteggiare nella sua quotidianità, nei suoi eventi minimi, e c'è anche una parte invisibile di Hora - lontana, dimenticata, rimossa - che gradualmente si disegna e assume contorni. Con tali strategie il microcosmo di Hora assume complessità, si rivela spazio della “calda vita” (U.Saba).

2 - Il mosaico e la scrittura

Le storie le abbiamo dentro e attorno a noi,io non faccio altro che raccoglierle come frutti da un albero e poi le fisso nel mosaico perchè durino il più a lungo possibile: questo hanno di buono i mosaici: che durano più degli affreschi, più dei quadri e delle parole, più di noi. (p. 193)

Tali affermazioni riconducono sul terreno della poetica di Abate, che possiamo ricostruire sia attraverso i romanzi e sia attraverso le parole dello scrittore affidate alle interviste, alle conversazioni. Alcuni punti in particolare si possono richiamare:
1) Lo scrittore ha ribadito da sempre di avere attinto dalle storie che abbiamo dentro e intorno a noi, dalle memorie famigliari e sociali, dai racconti ascoltati nei lunghi pomeriggi invernali intorno al deschetto dell'artigiano, dai canti arbyresh ricchi di miti e di suggestioni, dal folklore. Tali riferimenti hanno rappresentato e continuano a rappresentare un punto di partenza, un fermento nella sua narrativa, sin dalla raccolta di racconti Il muro dei muri e sin dal primo romanzo Il ballo tondo.
2) Comporre il mosaico è come comporre la pagina scritta.
La composizione del mosaico mira a dare visibilità e durata al “tempo grande”, ovvero ai miti e ai fermenti dell'animo.
Gojari narra e compone il mosaico con mano leggera, con gesti rapidi, tocca e posa le tessere con arte paziente, un'arte che ha bisogno di soste, di sospensioni, di contemplazioni condivise. Quasi vediamo l'opera nel suo farsi: attraverso nuove stratificazioni, lentamente, le tracce diventano trama, le trame assumono contorni, diventano visibili.(ecco il verde cupo dei paesaggi, un villaggio incendiato, il profilo di Jani Tista segnato da nostalgia sconfinata, ecco la bella Rossanisa,...).
Davanti al mosaico, così come davanti alla scrittura, la risposta è la stessa: contemplare e stupirsi, condividere:

Laura e Gojari stavano davanti al mosaico immobili,in un abbraccio leggero” (p.58)

Un'emozione legata agli sguardi, al silenzio, quasi una contaminazione d'amore.

Ho alzato lo sguardo verso Laura e l'ho vista sullo sfondo del grande mosaico. Stava ammirando l'uomo in primo piano, raffigurato di profilo, alto e imponente, con gli occhi carichi di una nostalgia sconfinata che guardavano lontano, al di là del mare nostro. (p.59)

L'uomo in primo piano è Jani Tista. Lo sguardo di Jani Tista, contemplato sul mosaico alla luce del suo doloroso percorso esistenziale, e della tragica fine che segna il suo rientro in Albania, e che il lettore conosce già, esprime dolore e stupore;esprime nostalgia della vita e della luce, come lo sguardo delle ombre nell'aldilà omerico esprimevano nostalgia del giorno.
La nostalgia sconfinata è quella che si nutre di lontananze, quella che scaturisce da un'aspirazione dolorante a una vita più umana. Lo sguardo di Jani Tista che guarda di là dal mare riconduce poi al mediterraneo, alle sue molte storie, agli approdi, ai naufragi, ai canti della diaspora.
Comporre il mosaico è come comporre la pagina scritta, si diceva. La scrittura per Abate è memoria e dialogo, sembra avere la leggerezza di un aquilone, si muove agile e disegna il mondo con i gesti rapidi con cui Gojari tratteggia le sfumature della luce; essa si configura come spazio mentale, come rielaborazione interiore, che ha bisogno di soste, di distanze (“non riesco a scrivere a Hora, ho bisogno di un luogo altro”, ha dichiarato lo scrittore in una intervista).
3) In anni più recenti, sulla scorta di Elias Canetti, Abate ha richiamato un altro momento notevole della propria poetica: lo scrittore si pone come evocatore del cambiamento, ovvero rappresenta il mutamento, i momenti di passaggio e di svolta. Non si può in tal senso non sottolineare che a farsi evocatore del tempo grande sia Gojari, cioè uno straniero; anche Abate affabulatore del tempo grande, in certo modo è straniero, ovvero in grado di proporre sguardi nuovi, gli sguardi che si nutrono dei suoni e dei ritmi delle lingue che lo scrittore ha ascoltato e che ha abitato.
4) Ancora uno spunto si può cogliere verso la fine del romanzo, allorchè Gojari si mostra impegnato nella rappresentazione degli avvenimenti recenti (le fughe dall'Albania degli anni novanta del secolo appena trascorso), ma non sa se riuscirà a finire l'opera. Un tale dubbio lascia pensare al lettore che l'arte,così come la letteratura, non riesce a riassumere e contenere tutta la vita e che qualcosa sfugge. Tutto ciò riconduce forse al dubbio proprio dei moderni circa la possibilità di ordinare il mondo.

3 - Un romanzo di partenze

L'evento lontano della fuga dei profughi dalla prima Hora, nel XV secolo, rappresenta il punto di partenza intorno a cui si sviluppano diverse trame narrative. Migrazioni e partenze più volte intervengono nello sviluppo delle vicende narrate. Si tratta di temi costanti e fondativi nella narrativa di Abate, temi che di volta in volta assumono nuovi approfondimenti e nuove sottolineature. Un tema a lungo meditato quello della partenza e della fuga. Esso ha molto a che fare con la storia sociale di Hora (ovvero di Carfizzi, il paese nativo dello scrittore), segnata dalle migrazioni, e con la storia sociale di una terra in viaggio quale è la Calabria, e con i percorsi biografici dello scrittore, che ha conosciuto partenze ed ha visto dimore nuove. Un tema costante, che nasce da una riflessione maturata a lungo, scaturisce da un grumo psichico profondo. Destini e condizioni esistenziali dei migranti trovano spesso tratti comuni nella ricerca narrativa, consentono accostamenti, nei diversi contesti narrativi e nella riflessione dello scrittore. Di seguito qualche richiamo e qualche sottolineatura, per mostrare la rilevanza che viene ad assumere questo grande tema.
Carmine Abate più volte ha raccontato che attraverso un percorso lungo e dolorosissimo, in terre diverse, è riuscito gradualmente ad assumere sguardi nuovi, arricchimenti ed apporti culturali nuovi nel proprio percorso identitario. Ciò significa che l'emigrazione resta un evento problematico, essa può comportare anche spaesamenti, naufragi, ripiegamenti. Ecco cosa si dice nel romanzo di alcuni albanesi che hanno abbandonato l'Albania e sono stati accolti a Hora negli anni 90, nel corso delle vicende drammatiche legate alla caduta del regime:

L'accoglienza da parte della gente era stata calorosa, all'inizio; poi era diventata tiepida e infine, esaurite le curiosità reciproche, sospettosa. Di sera gli albanesi si aggiravano in piazza con lo sguardo spaesato che ben conoscevano molte persone di hora emigrate all'estero; di giorno lavoravano saltuariamente in campagna per pochi soldi o andavano a fare i manovali in nero nei cantieri edili della Marina o stavano chiusi in casa a guardare la televisione (p.61).

In tale quadro, sul piano narrativo così come sul piano storico, le spinte forti verso il cambiamento e verso la speranza si intrecciano con l'avvertimento di una ingiustizia patita, allorchè si è costretti alla fuga:

l'importante è ciò che uno sente dentro di sé guardando queste figure vive, palpitanti, in viaggio nel silenzio. A me sembra di toccare con mano l'ingiustizia della fuga dal proprio paese e il male che fa la partenza forzata (p. 216).

Si rivela interessante a tal proposito richiamare alcuni passaggi di una intervista, che esprimono riflessioni non comuni e rendono quanto mai mosso un discorso sulle migrazioni.
Anche i lavoratori turchi numerosi oggi in Germania hanno conosciuto, come gli altri emigranti, difficoltà e spaesamenti. Lo scrittore, a suo tempo migrante pure lui, li ha sentiti vicini. In una intervista alla Stampa del 1991, Abate, dopo aver ricordato che i turchi nelle rapsodie arberische erano rappresentati come il grande nemico, potentissimi e dominatori dell'Albania per diversi secoli, sottolinea che ora “vive gomito a gomito” con loro, “ora loro sono Gastarbeiter come me e io li ho nobilitati nel mio romanzo (Il ballo tondo).Ne avevo bisogno”. Lo scrittore conosce e condivide la condizione dei lavoratori migranti in Germania, ha anche collaborato con esponenti della cultura turca negli spazi associativi multiculturali in Germania, sa che il più delle volte l'emigrazione non si pone come libera scelta, bensì come scelta drammatica tra rivoltella o partenza.
Siano migranti calabresi o serbi o turchi, i migranti conoscono spaesamenti, avvertono il bisogno di “una manciata di sguardi amici”. E' un modo di pensare l'emigrazione e il mondo fuori da ogni etnicizzazione.
Anche nel Mosaico, come nei romanzi precedenti, la partenza si pone come evento problematico, essa è faticosa e può determinare conflitti interiori. Si pensi a Gojari: è consapevole della necessità della partenza, e nel contempo avverte dolore, o quasi rimorso, per avere abbandonato famigliari bisognosi della sua presenza:

Gojari raccontava del vecchio padre che abitava da solo a Fshatirì: aveva ottantadue anni, il padre, ma ancora lavorava in campagna e aveva una memoria formidabile. Purtroppo non si vedevano da un anno e mezzo, e questo era il cruccio di Gojari, il vero dolore della sua lontananza: che il padre potesse avere bisogno di lui o morisse senza averlo accanto (p. 144).

E per contro una immagine accompagna struggente l'animo di Gojari, una immagine carica sicuramente di grumi psichici, di echi virgiliani e verghiani, di una memoria che sa attingere e rielaborare sul terreno narrativo i contenuti sociali e antropologici della profonda Calabria:

E ha raccontato la storia di un uomo che, per tutto il viaggio dalla prima alla seconda Hora, aveva portato sulle spalle il vecchio padre ammalato per non lasciarlo morire da solo (p. 144).

E i versi di Gerolamo de Rada riportati in epigrafe al Mosaico riconducono anch'essi al destino di fatica e di spaesamento che la partenza può comportare:

Ora te ne vai e il cavallo alato
come un bel sogno ci prende tutto il tempo.
E in quel paese dove domani arriverai,
non parlerai la nostra lingua, non la tua casa avrai,
lì non sarà la tua terra, nè verrai onorato.


Dopo la fuga dalla catastrofe, dopo avere visto l'incendio dei villaggi, dopo l'insediamento sulla collina del vento in Calabria, nessuno pensa a tornare indietro, le parole del Papas si rivelano realistiche e lungimiranti:

I nostri figli e nipoti hanno bisogno di certezze e di sogni, di sentire i loro piedi su una terra amica

Ma non tutti riescono a ritrovarsi nel nuovo contesto, così si esprime infatti Jani Tista:

avrei fatto meglio a non partire, qui ho passato una vita senza sale, di notte sento il dolore della partenza (p.79).

Così Jani Tista, dietro la spinta di impulsi profondi e misteriosi, matura la nuova partenza, la necessità del rientro in Albania:

voglio vedere il lago pieno di ninfee almeno una volta nella mia vita (p.80).

Voglio dare una mano ai nostri fratelli oppressi (p.80).

Devo ricongiungermi con la mia ombra, che è là e mi aspetta da quando sono stato generato (p.80).

La comunità, come avveniva nelle società contadine fino a pochi decenni fa, avverte la partenza come un evento sociale difficile e carico di interrogativi, e pertanto accompagna i due, Liveta e Jani Tista, fin dove il paese finisce, per l'ultimo commiato, come in un rito antico:

Jani Tista e Liveta vengono accompagnati fino al bivio del Padreterno dal paese intero o quasi...Nessuno parla. Si sente solo il tramestio dei passi sulla terra battuta e la voce rauca del vento che alza mulinelli di polvere e s'intrufola carica di granellini tra la folla, costringendola a ripararsi gli occhi con le mani per non lacrimare. Insomma sembra un funerale, ma al posto della bara si stanno accompagnando due uomini vivi, al momento, addirittura allegri, col sorriso spiritato dei fanatici nello sguardo (p.82).

Venti giorni per raggiungere l'altra sponda adriatica, in quel lontano scorcio del XV secolo. E cosa trovano i due, una volta giunti nel territorio di partenza, in Albania:

Più tardi risalgono la collina e vedono il lago: è pieno di ninfee fiorite, di anatre che si tuffano instancabili con la testa nell'acqua celeste.
“E' primavera” dice Liveta, gli occhi luccicanti di sole, me ne ero dimenticato. Hora è lassù, in mezzo a quei lecci.”
Avanzano cauti, quasi trattenendo il respiro,un po' per l'emozione, un po' perchè non si sa mai, consiglia Liveta, i pericoli si annidano dappertutto. E cosa trovano all'arrivo, cosa? Trovano mura bruciacchiate, resti di case e di tetti avvolti da rovi, cespugli di fichi selvatici, di lentischi. Il campanile della chiesa svetta sbrecciato in cima, ricoperto da un arazzo di edera rigogliosa. Tra le kjatre del sagrato, dove un tempo veniva acceso zjarri i Natallevet, il fuoco di Natale, cresce un labirinto di ortiche
(p.118).

Le partenze così come i rientri rappresentano un nodo, si configurano, si diceva, come eventi problematici, come ricerca, come sfida; possono comportare conferma o smentita delle aspettative, possono significare reintegrazione o perdizione nello spazio e nel tempo. I due cercano Hora, ma Hora è distrutta. Gli eventi hanno determinato la catastrofe, il tempo trascorso ha segnato il mutamento del territorio, del destino. I vivi sopravvissuti sono andati via da quei luoghi ora devastati, hanno inseguito un sogno di rifondazione del paese nel territorio albanese vicino, si sono dovuti allontanare, come anni prima altri profughi si erano allontanati ed avevano attraversato il mare per approdare in Calabria, dove avevano ricostruito Hora sul Timparello, una collina percorsa dai venti che soffiano da ogni direzione. Le pagine del romanzo lasciano pensare che presenze e tracce di Hora sono dappertutto. E' questo il destino delle “terre in viaggio” che sembrano, in certo modo, prolungare altrove tracce della loro vita.
Il pastore che si accompagna alla capra tra quelle sterpaglie dove i due speravano di ritrovare il proprio paese, aveva assistito alla devastazione, alle fughe, alla disgregazione della comunità, e pertanto non poteva restare quello che era prima: si mostra mutato, segnato, non “reagisce”, si mostra assente, è quasi sbigottito, e ora si aggira con la capra tra le rovine e non è sostenuto nemmeno dal mito consolante dell'erranza. La pagina riconduce al grande tema dell'eden devastato, che ha trovato soluzioni narrative intensissime nelle pagine di Manzoni, di Verga, di Pavese.
I due raggiungono i sopravvissuti che hanno rifondato Hora nel territorio vicino; gli abitanti di Hora rifondata accolgono e parlano per un giorno intero con Liveta e Jani Tista rientrati in Albania; come dire che l'urbanità e le manifestazioni di amicizia fioriscono quando hai intorno uno spazio abitabile entro cui vivere, entro cui organizzare la tua vita.

Vogliono sapere dei parenti fuggiti, degli amici della Hora lontana ( p.119).

Pur rimasti in Albania, essi hanno accompagnato col pensiero e con le parole del ricordo e della conversazione il viaggio per nave dei profughi verso le coste calabresi.
Sono pagine intense che riconducono il lettore al mito della diaspora, richiamano la rapsodia “E bbukura Morè”, il canto segnato da nostalgia sconfinata come il profilo e lo sguardo di Jani Tista, nostalgia come fermento e come aspirazione a una vita più piena.
Catturati, fanno una fine terribile i due rientrati in Albania, mentre in Calabria, a Hora, continuano ad aspettarli, vogliono sperare ancora, vogliono coltivare l'illusione che Jani Tista sia vivo e che stia per tornare:

Nessuno dei familiari mostra di credere che Jani Tista sia morto. E ogni giorno a tavola tengono un posto libero per lui e aspettano che bussi alla porta e si sieda con la sua famiglia a mangiare (p. 121)

Da questo contrappunto narrativo tra una speranza che si rinnova e riemerge nei gesti e nelle parole della vita quotidiana e la consapevolezza dolorosa del lettore sulla fine tragica dei due, scaturisce una tensione e un sentimento di pietà, appena trattenuto.

(Jani Tista) vaga poverino vaga di qua e di là come un batuffolo di stoppa nel vento, e aspetta la sepoltura per porre fine alla propria sofferenza. Ogni tanto si presenta a hora trasformato in una ghiandaia disperata o in una lucertola senza coda o in un garofano rosso sangue o in un refolo di vento dalla voce roca. Nessuno lo riconosce, come potrebbero? E poi non vogliono. Per loro lui resta vivo anche quando sono trascorsi nove anni e nove giorni e ormai la moglie è per tutti una povera vedova bianca, incurvata dall'attesa dolorosa. Anche adesso che il figlio Kolantoni è diventato il nuovo papas... (p. 122).

Sono pagine che rivelano una interiorizzazione profonda da parte dell'autore della cultura folklorica calabrese legata alla presenza e al ritorno dei morti, una cultura ancora viva negli anni sessanta e settanta.
La tensione però non può durare troppo a lungo, ha bisogno di sciogliersi: in un'ora particolare, in uno spazio particolare di Hora, in un momento particolarmente felice, Kolantoni, lo sguardo verso il mare, spera più che mai di vedere la nave che gli riporta il padre – quasi a condividere con lui questo momento felice legato alla nascita del figlio. Spera più che mai - si diceva- di vedere la nave che gli riporta il padre... ed ecco che il padre è dietro di lui, gli tocca la spalla, lo invita alla gioia alla rassegnazione alla preghiera.
Dopo un percorso narrativo così intenso, la tensione si scioglie, la vita ritrova un equilibrio, con la fine degli incubi e dei fantasmi.

4 - Ancora partenze, oggi

Il mito del “tempo grande” trova oggi un tessitore e un cercatore di memorie in Antonio Damis, oggi, ovvero verso la metà degli anni novanta del secolo appena trascorso; in un quadro sociale e politico dell'Albania ancora “caotico e pericoloso”, Antonio Damis si reca nel paese delle aquile per incontrare il padre di Gojari, che abita in un paese del sud di nome Fshatirì (Cittanuova) al confine con la Grecia, per farsi raccontare la storia di Jani Tista e di Liveta, che il padre di Gojari ha raccolto dalla generazione precedente. Poi parte, accompagnato dal padre di Gojari, per cercare la prima Hora. Ecco lo scenario che si trova davanti:

Non era tanto l'arretratezza del paese, simile alla nostra hora degli anni cinquanta, con i contadini che andavano in campagna a dorso di mulo e i bambini che giocavano a ika. E non era la povertà che si respirava in ogni angolo, il centro storico abbandonato ai topi, le case dall'intonaco scrostato, spesso senza vetri alle finestre, i giovani tutti via, peggio che a Hora.. Non era neanche la frustrazione di fronte al lago di ninfee diventato uno stagno pieno di rane magre e gracchianti. Era l'indifferenza della gente, che pure gli sorrideva, che pure era ospitale, ma che diceva “gjaku yne i shprishur” con un sguardo distaccato, senza un barlume di speranza (pp.213-214).

Insomma per dirla con le parole che abbiamo già trovato nel romanzo, le persone non avvertivano tracce vive dentro, non avvertivano i segni di un tempo grande da rievocare, da ricomporre, nella prospettiva del mosaico.
Più volte le catastrofi hanno destrutturato la vita sociale, la psiche delle persone. Alle catastrofi sono seguite le fughe, le partenze. Ecco la breve sosta di Antonio Damis nel territorio dove sorgeva la prima Hora:

... infine lo portò in giro per i ruderi della prima hora e solo lì, tra i resti dei muri appena visibili della chiesa, quella stessa in cui era stato seppellito Jani Tista, Antonio Damis riconobbe l'ombra del tempo grande che si allungava sulle pietre della strada infestata di erbacce e pareva inseguirlo, spinta dal vento ( p.214).

Sì, le tracce e i ruderi narrano storie, se abbiamo la propensione ad ascoltare. Il contesto narrativo che conclude il romanzo sembra rinnovare, implicitamente, l'invito a considerare quei ruderi, a raccogliere quei frammenti di memoria, a ricomporli, a dargli contorni e durata dentro di noi.
Salvare qualcosa - per riconoscere alcuni segni di un percorso identitario, per dare un senso alle fughe ed alle partenze.