Letture n.615 Marzo 2005

"Carmine Abate: se la scrittura diventa patria"
di Paolo Pegoraro

 Vincitore con La festa del ritorno dei Premi "Selezione Campiello", "Napoli" e "C. Alvaro", Abate è il più noto aedo dell’emigrazione italiana. Storie fresche, le sue, dove protagonista è la lingua viva che esplora ogni sua possibilità.

Nel suo Canzoniere italiano, Pasolini rievocava anche questo canto: «Dimmi tu, fiore, dimmi che hai,/ che piangi sempre, non ti rallegri mai./ "Ho guardato in alto/ e ho visto una grande nube;/ io credevo che fosse forestiera:/ era albanese, parlava come noi"». La storia delle comunità arbëreshe nel nostro Mezzogiorno, dal Molise alla Sicilia, è antica e ha fecondato i dialetti locali generando una nuova lingua. Carmine Abate, originario di Carfizzi (Crotone) e residente in un’altra terra di confine, il Trentino, ha raccolto la ricchezza di questo patrimonio mettendosi in luce con i romanzi Il ballo tondo (1991 e 2000), La moto di Scanderbeg (1999), Tra due mari (2002, ristampato quest’anno negli Oscar Mondadori) e, infine, il pluripremiato La festa del ritorno (2004). La sua scrittura si è subito imposta per una "felicità narrativa" che non si incontra spesso, mai slegata dalla concretezza di situazioni umane anche difficili.
Le tue storie sono lineari eppure ampie, epico-favolistiche: scrivi di paesi minuscoli e vi condensi il mondo intero. C’è bisogno di miti oggi?
«Credo che oggi, come nel passato più remoto, l’uomo abbia bisogno di miti perché, in quanto storie esemplari e in apparenza fuori dal tempo, contengono semi di valori universali che per germogliare hanno bisogno di terreno fertile, cioè di passare di bocca in bocca, di essere raccontati. Ciò che mi affascina non è tanto il lato favoloso di una storia in sé, ma il linguaggio che narra o canta il mito, il tono delle voci, la musica polifonica che sprigiona. E questo faccio: ascolto queste voci, simili a quelle di mia nonna che cantava le antiche rapsodie arbëreshe o dei tanti cantastorie contadini che ho conosciuto da bambino, e quando scrivo seguo quel ritmo con naturalezza».
Come sei giunto al tuo peculiare mistilinguismo?
«Il plurilinguismo e l’ibridazione fanno parte dei mondi che narro, quello dell’emigrazione della minoranza arbëreshe del Sud. Sono la voce stessa, e dunque l’anima, dei miei personaggi, ciò che nelle mie intenzioni li dovrebbe rendere vivi, persone in carne e ossa. Quando mi imbatto in parole o frasi arbëreshe, calabresi o ibride, mi accorgo spesso che sono loro che mi risvegliano delle storie, sono come delle esche che acchiappano storie. A questa lingua "contaminata" sono arrivato attraverso l’esperienza concreta che ho vissuto sulla mia pelle: di madrelingua arbëreshe, vissuto a lungo in Germania, dove ho esordito nel 1984, e ora in Trentino, scrittore in italiano. Poi ovviamente c’è tutto il lavoro artigianale dello scrittore, lunghissimo e meticoloso, per rendere la pagina leggibile ed evitare lo sperimentalismo fine a se stesso o il rischio della coloritura esotica della pagina e della storia».
Sei anche autore di raccolte poetiche. Come avverti il passaggio tra prosa e poesia?
«In realtà le mie poesie le ho sempre definite "proesie", che non vuol dire prose poetiche, ma una sintesi indivisibile delle due che contiene sempre un grumo di storia. Più che un passaggio tra le due, ci vedo un intreccio naturale per utilizzare al meglio le grandi potenzialità stilistiche e ritmiche di entrambe».
Secondo Gide «con buoni sentimenti si fa cattiva letteratura», ma il tuo stile sereno rende felicemente affetti e sessualità...
«Sarà forse per quell’"ottimismo biologico" che mi riconosce Massimo Onofri. O perché la storia e la vita non sono fatte solo di pieghe oscure ma anche di luce, bellezza, affetti ricambiati, sessualità gioiosa, rapporti familiari costruttivi».
Dai sempre rilevanza alla famiglia.
«La mia famiglia d’origine è stata ed è smembrata dall’emigrazione: quando avevo quattro anni mio padre è partito per la Francia e poi per la Germania. In seguito l’ha raggiunto mia madre e poi è partita mia sorella. È stata comunque una famiglia unita nelle cose che contano: l’amore, il rispetto, la dignità».
Il padre, nelle tue storie, è l’assente sempre presente. Perché?
«È sicuramente un dato biografico: ho avuto un padre emigrato, che però è stato sempre presente nei racconti di mia madre e nell’eco della sua voce che continuavo a sentire in paese o nei suoi sguardi che mi inseguivano ovunque, malgrado la lontananza. Forse però questo dato racchiude simbolicamente il rapporto tra due generazioni che, anche se non hanno comunicato molto tra loro, si rispettano, e il passaggio di testimone, la trasmissione dei valori, avviene senza scontri irreparabili».
Oggi la migrazione è attualità ineludibile: cos’è cambiato?
«La migrazione è sempre legata a un atto di costrizione: bisogna partire verso un mondo che non si conosce e dunque è fonte di insicurezza, di spaesamento, di sofferenza. Da questo punto di vista non è cambiato nulla. È cambiata la situazione in Italia, che da Paese di emigranti è diventata un Paese di immigrazione che vuole rimuovere il proprio passato di emigrazione. A molti di noi gli immigrati ricordano troppo chi eravamo, compresa la nostra povertà, per accoglierli con il rispetto che meritano, per scambiarsi le proprie ricchezze culturali, superando pregiudizi e luoghi comuni».
Che ruolo possono avere i migranti verso identità e memoria europee?
«Un ruolo fondamentale: perché spesso i migranti sono di fatto già europei, perché parlano più lingue, vivono in più culture, sono fatti di tanti pezzi di identità e di tante memorie che messi assieme come in un puzzle fanno l’Europa delle persone, che conta più di quella politica».
La tua scrittura è potentemente etica. Il tuo impegno sociale si concretizza anche in altre forme?
«In Calabria organizzo un premio di narrativa per ragazzi, con lo scopo di coinvolgerli alla lettura; e poi sono impegnato con un comitato di emigranti del mio paese a proporre e svolgere attività culturali. Piccoli contributi, in prospettiva però di un grande sogno: la nascita di una società realmente interculturale».
Realisticamente, cosa può fare la letteratura per il confronto tra culture?
«Penso che un buon libro scritto da uno scrittore immigrato in Italia serva a entrare nel cuore dell’immigrazione, sollecitare un confronto con la nostra cultura, molto più che tanti dibattiti televisivi o discorsi partitici».
Come fai a trasmettere queste idee ai tuoi studenti?
«I ragazzi non sanno che farsene delle prediche degli adulti. Vogliono esempi concreti, storie autentiche. Ricordo, per esempio, le letture dei racconti del siriano Rafik Schami che vive in Germania e scrive in tedesco, o delle poesie di Gëzim Hajdari o di un libro di Fabrizio Gatti, Viki, la storia vera di un ragazzino albanese in Italia. Testi che hanno fatto aprire gli occhi ai ragazzi, liberandoli da molti pregiudizi».
Che progetti hai per il futuro?
«Sto lavorando lentamente a un nuovo romanzo: una storia, come un frutto, ha bisogno di tempo per maturare».

Paolo Pegoraro.