La Stampa 4 settembre 2004
Inseguendo il cuore antico di
Calabria
di Sergio Pent
CARMINE Abate è uno di quei rari scrittori che, con volontà
quasi anacronistica in tempi di romanzi che "fiutano" l'onda della moda,
ancora perseguono una linea ben definita di qualità letteraria, tra impegno
rievocativo e recupero delle tradizioni: una sorta di Carlin Petrini della
nostra narrativa, se sostituiamo lo "slow food" col passo lento del racconto
che prende per mano il lettore e lo guida su un percorso minimo ma preciso,
appartato.
Le tradizioni evocate da Abate si radicano nel territorio di una Calabria in
cui le minoranze "arberesh" cercano di sopravvivere sfidando i tempi nuovi
con la voce della leggenda, si nutrono di coralità popolari per non spezzare
il ritmo di unioni secolari destinate a smarrirsi nell'omologazione del
tessuto sociale. Senza timore di presentarsi come scrittore "datato", Abate
segue dunque una linea narrativa che - pur sfiorando il presente - si cala
volentieri nel terreno fertile del passato, in un tempo dove gli uomini
riuscivano ancora a percorrere le loro stagioni - tra fatiche ed esilio -
senza dimenticare mai di essere espressioni individuali uniche di una storia
unica. Vengono in mente nomi come quello ormai troppo accantonato di Saverio
Strati, ma anche i "terroni" della Fontamara di Silone, le geografie grezze
e rocciose di confine del primo Tomizza, la Sardegna elegiaca di Dessì, le
boscaglie impervie e fascinose della Lucchesia mitizzata da Vincenzo Pardini.
Carmine Abate celebra il suo mondo attraverso storie semplici, familiari,
che recuperano nel ricordo la memoria stessa di un popolo, la cantano in
coro per diffonderne e concretizzarne l'esistenza, la circondano di
attenzioni come accade alle specie - umane, animali, vegetali - in via di
estinzione.
Nel precedente Tra due mari, l'autore aveva tentato la carta del romanzo
picaresco, ricavandone un'elegia commossa e ricca di pagine memorabili. In
questo breve, limpido La festa del ritorno, in gara per il SuperCampiello,
si ha l'impressione che Abate scriva inconsciamente per lasciare tracce di
sé e del suo mondo nelle antologie scolastiche: descrizioni intense e
precise, quasi fotografiche, dove la cucina, il paesaggio, i riti delle
feste assumono una posa involontariamente assoluta, e perciò naturale, vera.
Sono pagine dettate tra memoria e cuore, quelle che percorriamo, in una
Calabria remota dalla quale i padri partivano per cercare lavoro all'estero
e tornavano a casa per Natale, portando doni e nostalgia, aneddoti da godere
intorno alla fiamma del camino, fino alla prossima partenza.
La festa del ritorno questa volta è quella definitiva, e il protagonista
tredicenne sorseggia la sua prima birra accanto al padre, seguendo le tracce
del ricordo tra le volute di fumo del fuoco di legna, finalmente al sicuro.
Da questa sicurezza nasce la storia lieve e faticosa della famiglia: i
giochi con gli amici, le corse con Spertina - il cane ferito dal cinghiale -
le rabbie irrisolte di Elisa, la sorella maggiore nata dal primo matrimonio
del padre, rimasto vedovo con una bimba di due anni.
E' la forza dell'amore a prevalere, in questo percorso dove le attese dei
ritorni sono compensate dal contatto con un paesaggio vivo e luminoso, reso
dall'autore in tutte le sue febbrili mutazioni stagionali. Ma il percorso è
anche crescita, presa di coscienza di un confronto col mondo in cui rischia
di perdersi Elisa, amante di un uomo sposato, volontà di cambiare il corso
di un destino avaro di carezze e di regali.
Il mondo ricreato da Abate conserva tutte le suggestioni di un'epoca vista
dalle finestre di un habitat marginale, in cui il senso della vita cresce e
si sviluppa nel breve tragitto d'affetti di una famiglia semplice e
straordinaria. E il piccolo Marco può seguire in pace i riti del Natale,
accanto a un padre che ha finalmente gettato lontano la sua valigia di finta
pelle da emigrante. Ancora non sa che la prossima partenza, in un futuro
neanche troppo lontano, sarà la sua.
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