L'Indice maggio 2004

Carmine Abate, La festa del ritorno
di Giuseppe Traina

"Parti, naturalmente, come sono partito io e tanti giovani del paese, ché non avevamo scampo. Il lavoro di contadino, con quel poco di terra che abbiamo, ci bastava appena per non morire di fame. Avevamo case piccole come zimbe, vecchie e senza comodità. E non ci voleva molta spertizza a immaginare che voi figli avreste fatto la nostra stessa vita caprigna. Mentre il mondo progrediva. Progrediva pure da noi." […] "Per questo sono partito," disse "per questo non posso ancora ritornare per sempre. Se torno chi li manda i soldi a Elisa per l'università? Che ci mangiamo, se ritorno, capocchie? Come riuscirai tu da grande a diventare uno studiato? Ancora non puoi capire, bir, ma un giorno capirai."
Sono questi i termini, nudi e crudi, della questione emigrazione, così come li ripropone Carmine Abate nel suo nuovo libro. Ma la questione sociale è solo uno dei tanti motivi d'interesse che La festa del ritorno offre. Dopo due misconosciuti libri di racconti e poesie, e dopo tre splendidi e fortunati romanzi (Il ballo tondo, La moto di Scanderbeg e Tra due mari), Abate si è provato nella misura del romanzo breve. E anche in questo caso ha colpito il bersaglio in pieno, donandoci un testo di esemplare compattezza ed equilibrio tra le parti.
Calabrese di cultura arbëreshë (quella delle enclaves albanesi d'Italia), Abate è un caso, in Italia più unico che raro, di scrittore che sa unire una traboccante inventività con una cura raffinata dell'articolazione narrativa e dell'impasto linguistico. Non casualmente i suoi romanzi sono stati apprezzati da un lettore esigente come Consolo e da tutti coloro che non sono disposti a credere che la letteratura del presente e del futuro possa esaurirsi nel mero e celibe trionfo della fiction né, d'altronde, hanno mai innalzato peana alla "morte del romanzo". Per costoro, un libro di Abate è, non da ora, un luogo dove piacere e godimento del testo si sposano in perfetta letizia.
E vien voglia di rileggere proprio Barthes, là dove parla del "testo di piacere" come "Babele felice". Nei libri precedenti di Abate - dove aveva sempre spazio il tema dell'emigrazione in Germania -, il tedesco, l'arbëresh, il calabrese e la lingua dei "germanesi" emigrati si inserivano nel tessuto linguistico italiano senza stridori voluti né compiacimenti localistici, anzi con naturalezza, perché alla base della sua scrittura stanno dialoghi e narrazioni autentiche, nenie e rapsodie ascoltate da bambino, in un mondo che ben conosceva la dimensione bachtiniana del "vicinato". Tutto questo nella Festa del ritorno c'è ancora, ma il tedesco e il "germanese" sono scomparsi perché Tullio, il padre dell'adolescente Marco, è emigrato in Francia (come il padre dell'autore; che, invece, dopo la laurea in Lettere, andò in Germania); la dimensione plurilinguistica della scrittura si realizza adesso nell'alternanza di italiano regionale ed arbëresh (con rari inserti di dialetto calabrese e siciliano e delle storpiature dal francese, tipiche della lingua degli emigranti), ma soprattutto nella plurivocità, all'incrocio tra i diversi registri del parlato e nella costruzione di un'originalissima "scrittura della memoria", che riesce a congiungere il retaggio della memoria collettiva (saldamente condivisa dal singolo) alle ulcerazioni della memoria individuale.
Il romanzo vede incrociarsi, davanti al grande falò della natalizia "festa del ritorno", i ricordi di Marco e quelli di Tullio, e, nel discorso riferito, anche le voci della madre di Marco, della nonna, della sorella maggiore Elisa e della minore, la Piccola. Nei brevi periodi in cui l'emigrato ritorna a Hora (il toponimo d'invenzione con cui Abate parla del nativo Carfizzi), si sviluppa una bella complicità tra padre e figlio, che provvisoriamente risolve la mancanza angosciante per il bambino e la nostalgia lacerante dell'adulto: "camminavo al fianco di mio padre, solo questo m'importava". Ma il dialogo tra i due è pure appesantito da reticenze e omissioni che lasciamo ai lettori il piacere di scoprire: diremo solo che si tratta di normali schermaglie tra padre e figlio, che però, confrontate alle situazioni di irrisolto conflitto dei precedenti romanzi (padri assenti o troppo ingombranti o sostituiti da fiabesche figure di nonni), segnano un congruo passo avanti lungo l'itinerario di maturazione intrapreso, di libro in libro, dal plurimo eroe che abita questi testi.
Poiché i ricordi di Tullio sono incastonati dentro quelli del figlio, l'adozione del punto di vista di Marco consente anche in questo caso ad Abate - mai così consapevole dei suoi mezzi tecnici - di esprimere la "pienezza" nel rapporto uomo-natura in termini che potrebbero far pensare a un'anacronistica epica pre-moderna (si veda almeno il rapporto con la cagna Spertina); e invece, come con la consueta precisione ha chiarito Renato Nisticò, Abate costruisce nei suoi libri "un'epica contromoderna" che fonde "il tempo dell'epica antica, e la condizione di disincanto della modernità aperta a un futuro incerto, problematico". Sicché l'alternativa finale tra emigrare e partire si potrà porre, per Marco, come scelta e non come costrizione: frutto, insomma, di una maturazione vera, per la quale deve ringraziare proprio l'esperienza paterna. Il che, in una letteratura tradizionalmente povera di positivi rapporti padre-figlio com'è quella italiana, non è davvero cosa di poco conto.