Il Piccolo di Trieste 29 agosto 2004

Abate: Nella “Festa del ritorno” c’è la mia vita
 di Fulvio Toffoli

ROMA. Esistono nel meridione d’Italia numerose enclaves albanesi localizzate nel Molise, in Sicilia e soprattutto in Calabria. Sono insediamenti sorti intorno alla metà del 1400, quando gruppi di popolazioni albanesi in fuga dalla medrepatria dopo la vana resistenza di Giorgio Gastriota Scanderbeg, attraversarono l’Adriatico per trovare scampo dai turchi. Da allora, nel corso dei secoli, si è realizzata una apprezzabile integrazione con la realtà del luogo , tanto che, scrive Augusto Placanica nella sua Storia della Calabria, “non si è mai registrato alcun attrito tra le due etnie, chè, anzi, gli albanesi di Calabria sono rimasti sempre dotati di una identità forte, e hanno mantenute intatte le loro tradizioni, la propria lingua e la propria cultura”. In una di queste comunità lo scrittore Carmine Abate ambienta la storia del suo libro “La festa del ritorno”, Mondadori, 161 pagine, 7,80 euro, uno dei 5 finalisti del Premio Campiello che verrà assegnato dalla giuria dei lettori sabato 18 settembre a Venezia. Abate, emigrato da giovane in Germania, vive oggi in Trentino, dove insegna, ma torna ogni anno con la famiglia nel suo paese natale, Carfizzi, non tanto per una semplice vacanza quanto, come tiene a specificare, “per non perdere il contatto con le proprie radici”. E il tema della memoria, sviluppato in un racconto a due voci tra padre e figlio, è centrale in quest’opera che, con grazia e leggerezza, esplora il delicato rapporto tra i sentimenti di chi per necessità è costretto a continue partenze, e chi invece si trova a dover vivere e crescere facendo quotidianamente i conti con l’assenza prolungata e dolorosa di un figura importante come quella del padre. A Carmine Abate, che in questi giorni si trova ancora in Calabria, abbiamo chiesto quanto del proprio vissuto abbia riversato nel romanzo. “Parto sempre da esperienze autobiografiche reali perché sento l’esigenza che la storia che narro abbia un’anima. “La festa del ritorno” si basa sull’esperienza di lavoro di mio padre in Germania, ma intorno a questa intreccio molti altri elementi di fantasia, perché a un certo punto la storia prende una piega autonoma e va per conto proprio. E’ importante per me che il lettore senta l’autenticità del racconto e che mantenga sempre il dubbio che quanto legge possa essere vero.” Accanto a quello della memoria, l’altro motivo forte del suo libro è l’emigrazione, un fenomeno ben vivo e presente nella cronaca dei nostri giorni. “La costrizione dell’abbandono, del partire, è sempre una necessità dolorosa che accomuna gli emigranti di ieri ai profughi di oggi, e alla base della mia opera c’è il senso di quella che percepisco con rabbia come una profonda ingiustizia. Tuttavia l’esperienza dell’emigrazione non è soltanto negativa, e per questo ho cercato di evitare il clichè dell’emigrante nostalgico e piagnucoloso, perché sono convinto che essa possa costituire anche una possibilità di crescita, di confronto e di arricchimento con culture e modi di vivere diversi e più stimolanti di quelli dell’ambiente di provenienza.” I personaggi de “La festa del ritorno” mantengono sempre tra loro un forte senso di solidarietà e di appartenenza ad un ceppo comune. E’ perché fanno parte di una minoranza? “La mia scrittura si nutre di tendenze e incroci diversi. Fino a 6 anni sapevo parlare solo l’arbereshe, l’albanese antico, e il calabrese; l’italiano l’ho imparato a scuola, come una lingua straniera. Poi sono venuti il tedesco, il germanese, la lingua ibrida degli emigrati, e le altre lingue dei posti dove ho vissuto. Per questo affiorano spesso nel mio linguaggio, come echi di racconti d’infanzia, parole e frasi che ho volutamente lasciato senza note o traduzioni, proprio per dar conto della particolare identità di chi vive una cultura pluringuistica. Confido nell’intelligenza del lettore che credo capace di cogliere il significato di un contesto anche se non lo capisce alla lettera, magari affidandosi alla musicalità del ritmo In quanto al legame che, anche a scapito della lontananza continua a legare i membri della famiglia, devo dire che i nostri padri emigrati qua e là per l’Europa, l’hanno sempre mantenuto ben vivo. il mio, anche quand’era lontano, l’ho sempre sentito presente, ha saputo inculcarmi valori che ancora oggi sono alla base della mia vita.” Molti critici hanno ravvisato nella sua opera l’influenza del realismo magico di Garcia Marquez. E’ d’accordo? “Sono naturalmente lusingato di un simile accostamento, ma in tutta sincerità non mi ci ritrovo molto in questo paragone. Forse l’hanno fatto perché tutte le storie che racconto accadono in un paese immaginario, Hora, che ricorda Macondo, o per gli elementi magici che appartengono alla visione del mondo di un bambino, che percepisce con stupore tutta la realtà di cui fa conoscenza. Più che a Marquez, mi sento vicino a John Fante, e non tanto per lo stile, quanto per la sua storia di figlio dell’emigrazione.” Non è la prima volta che lei partecipa ad un premio letterario: il suo romanzo precedente, “Tra due mari”, ne ha vinti parecchi. Crede nell’efficacia di queste manifestazioni? “Scopo di chi scrive libri è farsi leggere, perciò credo che i premi letterari, quando sono seri e soprattutto quando sono decisi da una giuria popolare, possono aiutare la diffusione dei libri. Ben vengano le competizioni, e, mi creda, accetterò sportivamente il verdetto del Campiello, comunque contento di essere arrivato alla finale.”