«La festa del ritorno» - Carmine Abate
 di
Raffaele Taddeo
Il titolo e la stessa copertina, quest'ultimo come elemento 
quindi al di fuori del testo, stanno a indicare, a suggerire i significati del 
romanzo.
Tema dominante è la descrizione del rito che avviene attraverso l'accensione di 
un grande falò, residuo religioso pagano, rivitalizzato in rituale popolare 
cristiano, perché attraverso il caldo del fuoco del falò "il bambinello" possa 
scaldarsi. E' tutta una comunità che per settimane è coinvolta nella 
preparazione della legna che poi servirà all'accensione, nella festa del Natale, 
del grande falò le cui fiamme possono essere alte come quelle del campanile.
E' una festa che unifica la comunità, che ritrova la sua solidarietà e il suo 
stesso significato di esistenza.
La festa con il suo falò però fa da cornice. E' un contenitore nel quale si 
struttura la narrazione i cui ingredienti sono altri e che riguardano le vicende 
di una famiglia.
La copertina del libro, che mostra un uomo di spalla, piuttosto giovanile, e un 
ragazzo, preso per mano dall'adulto, veicola e suggerisce con forza un altro dei 
possibili significati del romanzo. Prima di iniziare a leggere, siamo indotti a 
pensare che la storia riguarderà la vicenda di un adulto e di un ragazzo.
Tuttavia questo bel libro di Carmine si sviluppa attraverso incroci di storie di 
più personaggi pur appartenenti alla stessa famiglia. E' la storia della 
emigrazione di Tullio (il padre), è la storia del segreto amore di Elisa, figlia 
di Tullio, è la storia di Marco, anch'egli figlio di Tullio.
Il nucleo centrale del romanzo sta nella crescita dalla fanciullezza alla 
pubertà del ragazzo. Sotto questo aspetto siamo di fronte a un romanzo di 
formazione in cui tutti gli aspetti educativi vengono posti in essere da quello 
dell'approccio alla natura e al non conosciuto, dal rapporto socializzante con i 
coetanei, all'apprendimento scolastico.
E' una maturazione che non viene descritta, ma che viene appuntata attraverso 
fatti, emozioni che si innestano al succedersi degli eventi. L'evoluzione della 
maturazione viene percepita dai comportamenti diversi che Marco ha man mano di 
fronte agli avvenimenti della realtà. L'elemento più significativo è 
contrassegnato dal rapporto intenso, dominante del ragazzo con la natura.
Lo schema narrativo è quella del flash back.
La storia di Tullio, si organizza in riferimento alla sua necessaria emigrazione 
e alle avventure e/o disavventure incontrate.
Le vicende, invece di Elisa riguardano un suo rapporto amoroso con un uomo 
adulto e lo scioglimento da questo mediante l'aiuto del padre e di Marco. 
Importante in questo quadro è la scelta della voce narrante fatta dall'autore. 
E' quella del ragazzo Marco. Questa scelta permette a Carmine Abate di sostenere 
la struttura narrativa nell'atmosfera mitica. Tutto il mondo adulto risulta 
intriso di atmosfera mitica. Anche i personaggi negativi acquistano questa 
caratteristica.
E' una storia che si snoda in un alone di mistero, di grandiosità, contenuta 
com'è da quel contenitore che è la festa del falò e che esalta questa 
caratteristica. E tuttavia non è solo la storia raccontata da un ragazzo, della 
sua maturazione, della sua crescita, perché spesso chi racconta è l'adulto, il 
padre di Marco, anch'egli attraverso il flash back. Il narratore ragazzo riporta 
la narrazione del padre. La comunicazione, le parole, però, vengono percepite 
dall'orecchio di un ragazzo, cioè la narrazione dell'adulto è filtrata dal fatto 
che chi ascolta è essenzialmente un piccolo.
La storia, la modalità con cui si snoda, la scelta linguistica si inseriscono in 
questo schema.
Si avverte una doppia caratteristica: la percezione del minorenne che è quella 
della trasposizione mitico-fantastica, e dall'altra l'attenzione da parte 
dell'adulto a una comunicazione che sia essenzialmente educativo-formativa. 
Il senso del mistero è un aspetto che spesso accompagna i personaggi, il padre è 
personaggio mitico, la nonna è una specie di "deus ex machina", come lo è 
misterioso anche l'amante di Elisa. Non si dice chi è, che cosa fa e si continua 
a lasciarlo in un'atmosfera vaga che man mano sarà svelata.
Si rivelerà un essere negativo, che manifesta, però, sempre qualcosa di 
grandioso anche per come si propone nella formazione di Marco. Tutto cioè viene 
giocato in un'aria che sa sempre d'altri tempi, lontani da ogni elemento di 
modernità, e contenuti in dimensioni che mantengono la struttura di valori che 
la modernità ha cancellato. 
Un altro elemento significativo di questo romanzo, costante dei romanzi di 
Abate, è che tutte le azioni dei personaggi adulti sono finalizzate al riordino 
valoriale, morale, a causa di una infrazione che vi è stata. In questo romanzo 
l'infrazione è data dalla necessità dell'espatrio.
La fuoruscita dalla propria comunità, dal proprio territorio d'origine è vissuta 
come una qualcosa che non bisognava fare, una reale trasgressione a leggi non 
scritte, ma scolpite nei valori della comunità.
L'allontanamento è delle funzioni principali indicate da Propp nel suo libro La 
fiaba di magia; non sempre è considerata come infrazione in sé, spesso è a 
seguito di un'infrazione che è necessario allontanarsi; in questo caso 
infrazione e allontanamento sono assimilati. L'allontanamento visto come 
infrazione ripropone l'eterno e storico conflitto fra nomadismo e stanzialità, 
topos letterario dominante anche nella Bibbia.
E' pur vero che sono in tanti a commettere la stessa disobbedienza, e quindi 
dovrebbe essere considerata come qualcosa di accettato, ma la storia di Tullio 
diventa esemplare per l'intera comunità.
A causa dell'infrazione, la famiglia rischia di distruggersi, affronta diversi 
pericoli, prove e perciò si pone la necessità della ricomposizione, che è 
determinata dal ritorno. Un ritorno necessario, anche se in un primo momento 
temporaneo e poi definitivo.
Nel testo di Abate non viene esaltato l'ideale dell'ostrica, di verghiana 
memoria, perché gli elementi di modificazione, di progresso, di modernità, se 
non sono visti in maniera totalmente positiva, non sono però neppure rifiutati. 
Ciò che viene affermato è il torto, l'ingiustizia che si subisce perché si è 
costretti ad andar via ponendo in pericolo specialmente la relazione familiare, 
la funzione paterna e la possibilità di maturazione, di crescita sana, corretta 
degli stessi figli.
Tutto il romanzo in fondo sembra un decalogo di istruzioni sul come costruire 
l'educazione dei figli pur nella necessità della emigrazione, su come ricomporre 
i pezzi frantumati a causa dell'espatrio forzato per cause economiche. 
Nella copertina si legge che Vincenzo Consolo ha considerato originale il 
linguaggio usato nel romanzo.
Nella storia della letteratura italiana il problema della lingua letteraria ha 
avuto diverse vicende. Una tradizione, risalente al 1500, ha fatto sì che i 
letterati da quell'epoca abbiano incominciato ad utilizzare solo codici 
linguistici elevati, incapaci poi di dare voce ed espressione alla vita della 
gente comune. Non è un caso che si svilupperà una letteratura tutta dialettale, 
antagonista e parallela a quella elevata, che diventerà voce della gente 
emarginata, della gente che soffriva. Goldoni si servirà del doppio registro, 
cioè di un linguaggio mediamente elevato quando le tematiche riguardavano la 
media o ricca borghesia veneta, di un dialetto, anche molto stretto, quando le 
tematiche erano attinenti al popolo, alla classe dei pescatori.
Verga nel momento in cui vorrà dare struttura di realismo ai suoi romanzi farà 
una operazione che gli permetterà comunque di presentare il modo di pensare 
della povera gente pur non usufruendo, se non per i proverbi, del dialetto. La 
terminologia che utilizza Verga è italiana all'interno di una sintassi 
prettamente dialettale.
Le opere di Verga, di Pasolini poi, di Calvino hanno permesso l'avvicinamento, 
la commistione dei due codici linguistici, il letterario e il dialettale ( dico 
per semplicità dialetto anche se qualche volta si tratta di una lingua vera e 
propria), e hanno fatto affermare che ormai in Italia l'unità linguistica si era 
compiuta, cioè era possibile una espressione adeguata anche per i problemi delle 
classi inferiori facendo ricorso alla lingua italiana maturata alla fine degli 
anni '60 del secolo scorso. (Marcovaldo è un esempio significativo di questo 
processo).
Tuttavia, proprio romanzi come quelli di Carmine Abate o Silvia Ballestra, con 
il ciclo degli Antò, e il successo che conseguono, rimettono in discussione 
queste conclusioni teoriche, o almeno denotano una forte esigenza di mantenere 
vivi modi di dire, lingue appartenenti a piccole comunità perché ancora una 
volta sono più aderenti alla realtà e non si riesce a esprimere valori, sensi di 
quelle realtà se non facendo ricorso ad esse.
Se però Silvia Ballestra usa forme dialettali come gergo giovanile, quindi come 
una lingua antagonista alla lingua degli adulti, Carmine Abate si serve dello 
strumento di frasi dialettali o di altra lingua (l'arbëresh) usandole da una 
parte come rafforzamento di identità o di appartenenza ad una comunità, perché 
il patrimonio del passato, delle tradizioni, dei valori ad essa appartenenti non 
si diluisca in una modernità fino a scomparire, dall'altra come mezzo educativo 
ai fini del perpetuazione di quel patrimonio.