Il Gazzettino 27.6.2004

Abate, il ritorno dell'emigrante, fra identità e nostalgia
di Sergio Frigo

La festa del ritorno" è quella che celebra, in cuor suo, il piccolo Marco ogni volta che suo padre si ripresenta a casa dal paese straniero dov'è andato a lavorare. Ma è una festa dal sapore amaro, perchè il ragazzo sa che la permanenza del genitore sarà molto breve, e poi egli ritornerà dove vive per la gran parte dell'anno. La festa del ritorno è anche quella che celebrano ogni anno a Carfizzi, nella Calabria arbëreshe (cioè italo-albanese), i paesani e i "germanesi", cioè gli emigranti e i loro figli, che non sono più del tutto italiani (e arbëreshe") e non ancora del tutto tedeschi, oppure sono entrambe le cose assieme. Infine "La festa del ritorno" è il libro che sui temi dell'andare e del tornare, sul crescere senza un padre vicino e sulle sofferenze dell'emigrazione, ha scritto Carmine Abate, scrittore a sua volta arbëreshe e a sua volta emigrante, che ora vive a Trento (a Beseno, per la precisione), esattamente a metà strada fra Amburgo e il suo paese, appunto Carfizzi. Il volumetto (Ed. Mondadori, 166 pag., € 7.80) sta conoscendo una grande fortuna in libreria, ed è stato il più votato alla selezione del Campiello. Carmine Abate è venuto a parlare del suo libro, della sua gente e della sua esperienza di emigrante, venerdì sera a Venezia, nel corso dei pomeriggi con i finalisti del Campiello organizzati al Future Centre, assieme ad un altro scrittore fuoriuscito, l'istriano Diego Zandel. Inevitabilmente gran parte dell'incontro è stato dedicato al tema dell'identità e della separazione, che sono i due poli entro cui si muove l'esperienza migratoria, tanto più se essa prende le mosse - come nel caso degli arbëreshe - da una comunità a sua volta "diversa" e "separata", almeno linguisticamente. Il libro affronta questi temi con lo sguardo limpido ma sofferente di un bambino e con il racconto doloroso di un padre, che da lontano non riesce a seguire come dovrebbe il travaglio esistenziale e sentimentale di un'altra figlia; il linguaggio stesso esprime - nel frequente ricorso a termini albanesi, negli scarti e nei deflussi - sentimenti controversi come la felicità e la rabbia, i colori di un paese sempre presente nell'anima o il buio della lontananza. Nella vita Abate ha la capacità di sublimare questi problemi, che ha vissuto sulla sua pelle, con la risorse della cultura e la vitalità del carattere. "Dopo la laurea e molti anni di lavori stagionali in Germania - ha raccontato ieri sera a Venezia - ho insegnato l'italiano ai figli degli emigranti, spesso al centro di discriminazioni e soprusi legati alla loro origine. Io invece spiegavo loro che potersi confrontare con culture diverse, la propria di origine e quella di accoglienza, è una ricchezza, che ci accresce il nostro patrimonio di storie, emozioni, parole". E ancora: "Un giorno ho avuto come un click, un'inquizione: per i tedeschi sono uno straniero, mi sono detto, per gli italiani un calabrese, per i calabresi un gegio (spregiativo per arbëreche), per i miei compaesani un germanese. Ma io, io sono un'unica persona, Carmine Abate, fatta di tutti questi pezzi insieme: e questa è appunto la ricchezza di noi emigranti, è come avere un orecchio e un occhio in più. Il segreto è dunque integrarsi nella nuova cultura, ma senza tradire la propria". Un messaggio più che mai attuale, soprattutto nella moderna società multietnica.