In: Pasquino Crupi, Storia della letteratura calabrese,
IV Vol., Periferia, Cosenza, 1997

CAPITOLO LVII

 

57.1 CARMINE ABATE

 

57.2 La vita

  Figlio di emigrati, Carmine Abate [Carfizzi (Crotone) 24 ottobre 1954] mette nella valigia, non più di cartone, la laurea in lettere moderne e va fuori d'Italia, in Germania dove insegna per qualche tempo nelle scuole per figli di emigrati. Poi si restringe a Besenello nel Trentino. Nei 1984 esce una raccolta di racconti, centrati sull'emigrazione, Den Koffer und weg! (Kiel 1984) e in collaborazione con la dottoressa Meike Behrmann il saggio Die Germanesi (Frankfurt 1984): poi con il titolo I Germanesi in edizione italiana, (Cosenza 1986). Racconta la storia e la vita di una comunità albanese, quella di Carfizzi, in rapporto all'urto modificatorio impresso dall'emigrazione su economia, cultura e civiltà.

57.3 Il ballo tondo: un boato di novità

Il suo primo romanzo è Il ballo tondo (Genova 1991). E qui continua a raccontare Carfizzi, che chiama Hora, stretta fra tradizione e novità. La novità non ha nulla di nuovo per una comunità, sia pure albanese, del Sud senza bussola: è l'emigrazione, che fa pendolare tra Hora e la Germania Francesco Avati, detto il Mericano. Partono gli uomini, le donne rimangono. O si staccano solo per matrimonio. Sceglie Carmine Abate, di raccontare una famiglia patriarcale, la famiglia di Francesco Avati, il Mericano. Vivono sotto lo stesso tetto, animati da una comune visione della vita, che ha i suoi assi ordinatori nella difesa della tradizione e nell'onore: il nonno, nani Lissandro, il padre, Francesco Avati, detto il Mericano, la moglie del Mericano, zonja Elena, le figlie Orlandina e Lucrezia, il figlio Costantino. In effetti, il Mericano vive sotto lo stesso tetto per modo di dire, poiché va e viene dalla Germania, e, ogni volta, è preso dalla smania di costruire e demolire, di demolire e costruire. Viene il giorno in cui il Mericano fa ritorno dalla Germania con un trentino, che è suo compagno di lavoro e di baracca. Lo dà in matrimonio a Orlandina. Lucrezia sposerà il prof. Carmelo Bevilacqua di Belcastro, insegnante elementare a Hora. Costantino, che nel nonno ha il maestro di vita e il mentore della civiltà arbëresh, forse sposerà Isabella, che vive a Roma, ma i cui genitori sono arbëresh. Il romanzo si chiude con la grande festa e il grande ballo tondo per il matrimonio di Lucrezia con il prof. Carmelo Bevilacqua, Ballano sulla spiaggia gli sposi e gli invitati. Osservano dalla spiaggia nani Lissandro e il pronipote Paolino, figlio di Orlandina. Racconta il vecchio fatti, eventi leggendari dei popolo arbëresh. Improvvisamente, s'interrompe. Si accascia muore. E Paolino lo scrolla perché vuole la fine del racconto e lo incita prima in lingua italiana, poi in lingua arbëreshe: "E poi? E pra?"
È da questa pagina finale che dobbiamo prendere avvio per capire l'allegria di questo romanzo, che aveva tutte le condizioni per rovesciarsi alvarianamente nella elegia di una civiltà, che scompare. Non si rovescia Il ballo tondo taglia corto con tutta la musoneria disfattista della letteratura meridionale, che Saverio Strati (Cfr. 46.31) aveva cercato di superare, alzando allo sguardo del contadino trafitto l'orizzonte liberatore della città. Non è il romanzo della sconfitta della civiltà arbëreshe, trapiantatasi nella Calabria cosentina cinque secoli fa. Per accorgersene, occorre avere buoni occhi e avere la forza di capovolgere la gerarchia delle misure tra i personaggi, che si muovono ne Il ballo tondo. Non c'è dubbio che dominante nel romanzo è la figura di nani (nonno) Lissandro, il Grande Vecchio, maestosamente e suggestivamente costruito da Carmine Abate così come era riuscito al solo Verga con Padron 'Ntoni. che pure gli resta diverso. Nani Lissandro sa intrecciare tradizione e novità, non ha paura della novità perché sa la forza della tradizione quando diventa insopprimibile asse di orientamento nella realtà in cui si vive. Non c'è altrettanto dubbio che una posizione onnivora assume nel romanzo il Mericano, inesausto lavoratore e inesausto bevitore, forte e allegro, ma non dotato di grande vita interiore. Tutta la sua vita è il lavoro. E altrettanto dubbi non possono esserci, quanto alla loro consistenza di personaggi, per zonja Elena, per Orlandina, per Lucrezia e soprattutto per Costantino, che, fino ad una certa fase, è l'unico a custodire il sogno dell'aquila a due teste, compagna del viaggio verso la libertà di parte del popolo arbëresh. Ma guai, però, a non avvedersi, per quanto minuscolo sia e perché minuscolo, di Paolino.

57.4 Il romanzo aperto di un realista visionario

È Paolino il vero e grande personaggio del romanzo. Si pensi. Il bisnonno ha consumato il suo viaggio terreno. È morto. Non ha avuto tempo di completare il canto per il pronipote in ascolto: "Sembrano delle pecore che belano, sembrano degli asini che ragliano pestando le fave nell'aia. Sembrano dei fantas…". Paolino è lì, a chiedere spazientito. "E pra?". E poi? Nani Lissandro non può più rispondere, replicare, riprendere la narrazione. È a Paolino che è affidato il compito di continuare il racconto. Si capisce che pure il lettore è autorizzato a continuare il racconto, a immaginare come crescerà Paolino e di che cosa sarà fatta vita sua e della popolazione arbëreshe. Emigrerà dal trentino anche lui come il padre? Ritornerà ogni anno a Hora per le ferie o per sposare colà una ragazza con i capelli blunotte? Non c'è che da scegliere e ogni scelta è di opportuna coerenza così la trama generale del romanzo, di questo romanzo fortemente novecentesco, "aperto", che non si chiude come non "si chiudono tanti fra i grandi libri del secolo, La recherche di Proust e l'Ulisse di Joyce; non si chiudono Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno. Eppure, ci sono ne Il ballo fondo tutti gli elementi che dovrebbero concorrere a farne un romanzo-chiuso: l'impianto realistico, la fiducia nel carattere oggettivo della realtà, la presenza di personaggi organici, la conclusione dell'andare e venire dei Mericano attraverso l'avvenimento decisivo per una famiglia meridionale di ascendenza albanese: il matrimonio delle figlie femmine. Si affaccia anche, in questo contesto, il profilo dei narratore onnisciente, che regge la trama e sa come andrà a finire la storia. E, invece, proprio quando i personaggi sono arrivati alla fine del viaggio, Carmine Abate costringe il più piccolo di loro a iniziare un altro, ma non opposto, cammino. Ma in uno stato di costrizione si trova lo stesso narratore. Egli non può concludere la sua storia, non può chiudere il suo romanzo. Non si è mosso, intimidito dall'ombra di Alvaro, dalla realtà alla memoria, che affabula e chiude i conti con il presente. Né ha fatto ricorso al tempo relativo, che oscilla tra passato e presente, e liquida il passato nella nostalgia. Il tempo del romanzo di Carmine Abate è il tempo della leggenda, che affianca la storia nel suo divenire, ed è il tempo della storia, che affianca la leggenda nel suo permanere. Per quanto paradossale possa apparire, è la leggenda che diviene il criterio per orientare la storia e per orientarsi nella storia. Preso dentro queste due coordinate, il romanzo non può che essere una storia infinita, comunque una storia che per ora non finisce. Ma acquista anche un'originalità strutturale, destinata a sconvolgere e a ripensare l'intera letteratura meridionale.

Carmine Abate ha raccontato quello che ha ascoltato e si è impresso nel suo cuore. E dall'ascolto, non dall'osservazione, si è risarcito come narratore epico, di stampo omerico, tutto affidando all'intreccio, niente concedendo alle pause meditative, parenetiche, moralistiche. E nulla concedendo alla facilità infelice del linguaggio del romanzo meridionale, discendente verso l'insaporimento gergale. Dopo il siciliano illustre del Verga, era a questo discrimine che si era arrestata la letteratura meridionale.

57.5 La lingua: fuori dall'italiano liscio e dal linguaggio mescidato

La vita non è facile per i meridionali. Non è facile neppure la letteratura quando si tratta non solo di proporre un contenuto, ma soprattutto un nuovo linguaggio, coerente con l'anagrafe sociale dei personaggi raccontati. Da una parte sta l'italiano liscio e dall'altra parte la mescolanza di lingua e dialetto: né lingua né dialetto. Carmine Abate si toglie fuori da questa doppia taglia. Sa di non potere adottare univocamente la lingua italiana come strumento della narrazione. Sa pure che a lui è vietato ciò che è stato consentito a molti narratori meridionali e calabresi: la mistura lingua e dialetto, che mantengono confini, sia pure lontani, e possono univocamente trasformarsi l'una nell'altro. Lingua italiana e lingua arbëreshe sono osmoticamente incongruenti, ed è del tutto impossibile che a parola arbëreshe possa essere italianizzata. Il rapporto tra le due lingue è di traduzione, non di modificazione. Non rimane allora che la scelta iniziale di un embrionale linguaggio binario: prima la cellula arbëreshe, suo dopo il lemma italiano corrispondente. O può anche essere il contrario. Vale anche quando, piuttosto che un lemma, Carmine Abate ordisce a intera frase.

Facciamo alcuni esempi:

La vecchiaia è una carogna, nje pjak esht si nje fjete e thate.

Noi abbiamo lo stesso giak, sangue, di quelle genti.
Va, però, Carmine Abate oltre questo linguaggio binario, che, ove mantenuto nell'intera economia del romanzo, darebbe conto della presenza di una sola lingua comunicata, quella italiana, e di una lingua arbëresh, quella, ridotta alla meschina e misera presenza del segno grafico: di tutta utilità in un sillabario, non in un romanzo. Il registro linguistico di Carmine Abate accoglie anche l'opzione per la continuità non frazionata di italiano e di arbëresh, ma senza che il lemma la frase in arbëresh abbiamo bisogno della stampella in lingua italiana dare significato ai loro significanti. È il contesto a decidere la decifrabilità dell'arbëresh. Come, ad esempio:

I due vecchi si abbracciarono fraternamente. "Skumetiri se ki esht Kunstandini, disse il rapsodo e abbracciò Costantino come se lo avesse conosciuto da sempre".

Da quel giorno (dal giorno della morte del marito: nota mia) la madre Mericano si rimboccò le maniche della coha di lutto e lavorò la campagna una vita intera come un uomo (...). La coha di lutto gliela levarono trent'anni dopo, quando i figli maschi lavoravano all'estero, e la rivestirono, com'era d'uso, con la coha dorata delle nozze, che le stava a larga nella bara, ma la ringiovaniva di vent'anni .

Linguaggio binario e linguaggio non frazionato galleggiano con pari forza nel testo. Sono, talvolta, accostati nell'ambito di una stessa situazione: Gjaku esht giaku, il sangue è sangue, non mente. La razza è razza. Quella è una razza di puttanieri e di puttane. Non ti fidare, bije!'.

S'insinuano anche i canti nel registro linguistico arbëreshe del romanzo, e, in questo caso, come è il caso della musica, il lettore non può avere chiavi ermeneutiche. Deve godere la dolcezza armoniosa del suono. Non pochi sono i proverbi e i modi dire in arbëreshe nei quali si riassume la Kultur delle civiltà contadine. Insomma, è l'intero organismo della lingua arbëreshe, che prende corpo accanto alla lingua italiana ne Il ballo tondo. O quanto meno, l'organismo linguistico, che serve a definire i rapporti di lavoro, di famiglia, di vicinato degli albanesi. L'operazione è davvero copernicana. Nessun narratore meridionale è riuscito a tanto. Saverio Strati, che più di tutti ha sperimentato il dialogo tra lingua, dialetto, lingua straniera ha fissato organicamente la lingua, ma il dialetto e la lingua straniera sono rimasti allo stato di frammenti e di frantumi.

Questo romanzo di Carmine Abate esce, come è già noto, nel 1991; in un tempo in cui di letteratura calabrese si parla poco in giro. La ruota riparte dal punto più alto con il giovane Carmine Abate, con questo suo romanzo epocale, che attende un seguito, se un seguito hanno i capolavori.

57.6 Dal romanzo ai racconti: "Il muro dei muri"

Si presenta strutturato come un insieme di racconti - 14 -, ma, al di là di ogni apparenza la più probabile, Il muro dei muri (Lecce 1993) è un romanzo, modernamente costruito a incastro. Ogni storia, accolta in un suo specifico spazio narrativo - lo spazio del racconto - non è mai conclusa, rinvia alla storia successiva, e così di seguito fino al conclusivo quattordicesimo racconto. Protagonisti sono di nuovo i germanesi, i suoi paesani di Carfizzi - Hora, stranieri in Germania e stranieri, quando vi tornano, nella comunità arbëreshe. Ma questo non è che il dato usuale di tutta la letteratura sull'emigrazione. Il muro dei muri apposta la terribile fase dell'odio razziale contro gli stranieri in una Europa, che si apre al mercato, ma non ancora alla civiltà. Questo fin qui non era stato raccontato. Carmine Abate lo ha raccontato con una lingua speciale, fatta d'italiano, di arbëresh, di tedesco e slang germanese. Dando anche prova decisa di come abbia il polso adatto per il romanzo e il racconto. Infine, per la poesia, dove emigrazione e emigrati riappaiono durevoli e sempre nuovi in Terre di andata (Lecce 1996). Ma sarebbe bene che Carmine Abate concentrasse le sue energie sul romanzo dove alta la sua testa ondeggia tra le teste alte della letteratura italiana.

LA CRITICA

Die Alternative, Carmine Abate: "Ballo Tondo - Der Reigen", in "Hessischer Rundfunk"), agosto 1993; Q. Antonelli, Abbiamo letto: Il ballo tondo, in "Questotrentino", n. 9 - novembre 1991; e dello stesso autore: Abbiamo letto: Il muro dei muri, in "Questotrentino", n. 8 -aprile 1994; P. Borbon, Der reigen, in "Das Stadtblatt", n. 12 - dicembre 1993; I. Behl, New aus Kieler Kleiverlag: Malik, in "Kieler Rundschau" n. 51 - dicembre 1994; R. Bertacchini, I seni di Lucilla e i sogni grigi di un uomo solo, in "L'Indipendente", 17 maggio 1994; V. Cappelli, Carmine Abate: Il ballo tondo, in "Dedalus", n. 1 - gennaio-giugno 1991; A. Cavaglion, Il ballo tondo, in "L'Indice", n. 1 - 1992; D. Frigessi, Spaghettifresser, in "L'Indice", n. 6 - giugno 1989; S. Gambino, Ma un muro c'è sempre, in "Gazzetta dei Sud", 22 febbraio 1994; S. Gensini, Prefazione a Terre di andata, cit., pp. 9-14; S. Lanuzza, Carmine Abate, Dimore, in "Molloy", n. 18 marzo 1993; F. Panzeri, Albania, la mano del destino come un'aquila sui muri d'acqua, in "Avvenire", 17 agosto 1991; C. Pitto, Carmine Abate-Meike Behrmann, 'I Germanesi", in "Rivista Zjarri" n. 31 - 1987; M. Valenti, Balli e capitomboli di Ulisse, in "Riforma della scuola" n. 5 - 1992; B. Ventavoli, Abate: La magica Calabria degli Albanesi d'Italia, in "La Stampa", a. XVI - maggio 1991

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