Corriere della
Sera
Martedì 23
novembre 1999 - p. 33
Cultura
TENDENZE Da Rushdie a Ben Jelloun, all'estero adottare una lingua presa in
prestito è un fenomeno ormai consolidato. Da noi nasce solo ora: e c'è chi
parla già di rivoluzione
ITALIA La
letteratura salvata dagli stranieri
L'iracheno Younis
Tawfik, il palestinese Madih Masri: i nuovi autori di casa nostra.
Sanguineti: nei prossimi anni si imporrà un'altra storia per la narrativa
di Cinzia Fiori
«Arrivò Scanderbeg, dove arrivò? Arrivò
con la sua moto nel burrone del Varchijuso, dove a malapena si scendeva a
piedi. Arrivò Scanderbeg e mi chiamò con gli occhi: vieni, Lidia, vieni».
Lingua italiana, musicalità delle rapsodie popolari arbëresh. Un antico
idioma balcanico, tuttora parlato dagli albanesi fuggiti in Calabria secoli
fa, piega l'italiano di Carmine Abate a soluzioni inaudite. E questo è
soltanto un esempio, tratto da un romanzo, La moto di Scanderbeg, che per un
soffio non è entrato nella cinquina del Campiello. Come Abate, anche Muin
Madih Masri e Younis Tawfik scrivono in una lingua diversa dalla loro lingua
madre: l'italiano che hanno imparato a scuola o vivendo qui. Il primo,
palestinese, ha pubblicato una lunga fiaba araba, ambientata nel periodo
della guerra dei Sei giorni. Nel Sole d'inverno, questo è il titolo,
l'esotismo è un morbido inganno che avvolge il lettore conducendolo di
fronte a mali e dolori mai sanati. Tawfik, nato in Iraq nel '57, esordisce
ora con un vero e proprio romanzo, La straniera. Il suo linguaggio è
ordinario, ma il procedere ellittico della narrazione, i ricorrenti sfoghi in
prosa poetica creano una contaminazione fra modelli classici arabi e la
modernità di una storia d'integrazione nella Torino d'oggi.
«Uno straniero non è mai felice fino in fondo», scrive Younis Tawfik. «Perfetto
è quell'uomo per cui l'intero mondo è un paese straniero», dice con Abate
il figlio di Scanderbeg. Esperienze diverse, come diversa è la narrativa
italiana che, spinta dai cambiamenti sociali, verrà. «Un anno fa,
incuriosito dalle cose bizzarre esposte, entrai con mia moglie in un grande
magazzino - racconta Edoardo Sanguineti -, c'erano cibi e abiti esotici
provenienti da ogni parte del mondo. Soltanto dopo un po' mi accorsi che
eravamo gli unici bianchi in mezzo a tanta gente che affollava il negozio. Ma
ciò che più mi colpì, fu l'osservare come queste persone, non avendo altra
lingua in comune, parlavano italiano. Pensai allora al curioso destino di una
lingua, la nostra, di area tutto sommato limitata, che diventava una sorta di
esperanto per un numero di persone destinato a crescere. Inizia un'altra
storia dell'italiano, che non potrà non avere riflessi letterari, anche se i
tempi saranno lunghi».
Non che i tre autori citati siano i primi a scrivere in una lingua
imprestata: Tim Parks, Giorgio Pressbuerger, Bamboo Hirst sono soltanto tre
esempi italiani di un'esperienza che trova riscontro in casi, anche
celeberrimi, di tutta la narrativa novecentesca: Conrad, Nabokov, Beckett,
Brodskij... Ma di casi, appunto, si trattava, o perlomeno così venivano
percepiti. Finché i tempi non maturarono, al punto da indurre Salman Rushdie
al seguente bilancio: «Penso sia possibile cominciare a teorizzare
l'esistenza di fattori comuni fra scrittori provenienti da paesi poveri o
minoranze sottomesse in paesi ricchi e dire che buona parte delle novità
della letteratura mondiale provengano da tali gruppi». Lo scrisse nel 1983
in un articolo intitolato «Perché non esiste una letteratura del
Commonwealth» (poi raccolto in Patrie immaginarie). «Di fatto - ricorda
l'anglista Claudio Gorlier - finiva per affermare che tale letteratura
esisteva. Scrittori come Naipaul, Ishiguro, Rushdie stesso, hanno arricchito
una tradizione narrrativa che già era forte in Inghilterra, introducendo un
modo diverso di raccontare e di vedere il mondo. Ma la realtà di quegli
immigrati era diversa dalla nostra. Venivano dalle ex colonie britanniche,
dove l'inglese era normalmente usato per comunicare. Chi arriva da noi,
invece, non conosce l'italiano. Perciò se mi aspetto un cambiamento è dalla
seconda generazione, quella dei figli degli immigrati. Che qui trovano però
una lingua rigida, vecchia, artificiosa. L'inglese è invece più flessibile,
si presta all'innovazione».
Ma attraverso quali processi può cambiare la lingua letteraria di un paese?
Egi Volterrani, traduttore di Ben Jelloun, porta l'esempio della Francia. «Lì
- dice - l'influenza degli immigrati è stata molto evidente. Su Nedjma,
pubblicato nel 1956 dal drammaturgo arabo Kateb Yacine, sono state scritte
decine di tesi di laurea. E' un romanzo che vive di scrittura, Yacine usa il
francese con un fervore tale da rendere efficacemente atmosfere quasi
intraducibili. Per ottenere questo risultato, non esita a cambiare la
struttura della frase: non mette sempre il soggetto, non usa le dipendenti e,
anche quando sceglie una sintassi tradizionale, lo fa in modo inaudito.
Grazie ad autori come lui la letteratura francese ha perso aulicità. Poi
altri fenomeni sono venuti, penso alla torrenzialità equatoriale di Sony
Labou Tansi, ottenuta con l'utilizzo di centinaia di termini anziché
accontentarsi di uno. Ma potrei portare altri esempi, per dire come
l'attenzione posta dagli autori francofoni agli etimi delle parole, abbia
segnato la narrativa francese».
Più in generale, spiega l'americanista Marisa Bulgheroni: «La lingua
prescelta tende ad essere modificata secondo due linee. La prima è una
trasformazione profonda, ottenuta tramite invenzioni idiomatiche partite
dalla lingua d'origine. La seconda è una trasformazione nascosta, che non
altera formalmente la lingua acquisita, ma con qualcosa di simile a una
pronuncia mentale la piega all'espressione di rituali e comportamenti che le
sono estranei. C'è però una differenza fra le letterature anglofone o
francofone, nate dal desiderio di dar voce a un passato soffocato, e il
mutamento spinto dalla necessità vitale di comunicare in un paese nuovo, con
una nuova lingua. In questo senso, quanto si annuncia in Italia è simile a
ciò che è avvenuto negli Usa. Lì ogni etnia ha riformato l'inglese
partendo dal proprio patrimonio, arrivando a creare delle vere e proprie
letterature, poi entrate nella storia letteraria americana».
Tre i grandi gruppi individuati da Bulgheroni: «Gli afroamericani, come Toni
Morrison, oltre al loro bagaglio mitico, hanno trasferito nella scrittura la
parlata dei neri, creando una lingua nella lingua, con i neologismi, lo slang
legato al jazz che influenzò la beat generation. Gli ebrei che arrivavano da
oriente hanno invece arricchito la letteratura di timbri, umori e ritmi
nuovi. Penso alla sonorità jiddish trasportata nella scrittura di Malamud,
Roth o Bellow. Poi ci sono gli indiani d'America, come Scott Momaday. Le loro
opere non modificano la lingua, ma immettono nella scrittura un universo
magico che confligge con quello circostante. Tornando all'Italia, penso che
passeremo per una fase di espressività, con modi di dire, come quelli in
siciliano di Camilleri, che pur forzando la convenzione, non riescono a
diventare neologismi. Soltanto se l'immigrazione continuerà, l'italiano
orale dei vari gruppi etnici giungerà ad arricchire d'invenzioni la nostra
letteratura, com'è successo in America».
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