Corriere del veneto 10/08/2012
 

 

CENTO ANNI DEGLI ARCURI.
UN'AVVENTURA CALABRESE

di Alessandro Zangrando
 

  «La collina del vento», il romanzo di Carmine Abate finalista al Campiello. L'intreccio tra famiglia e luoghi, un patto secolare radicato sull'altura del Rossarco

La Calabria, una famiglia e un legame di sangue con un luogo, il Rossarco, un’altura mitica ed enigmatica a pochi chilometri dal mar Jonio. Carmine Abate racconta la sua Calabria e di nuovo il Sud è protagonista di un romanzo, in questo caso La collina del vento (Mondadori, 17,5 euro). Il Rossarco e la sua storia si intrecciano con quella della famiglia Arcuri, in un racconto lungo cento anni che va dagli inizi del ’900 ai giorni nostri raccontato da Rino. E’ proprio dalle parole di Rino che veniamo a sapere della storia del bisnonno Alberto, dei suoi tre figli, di un compatto gruppo di donne solide e pratiche del Sud, fino all’ultimo degli Arcuri, che insegna in Trentino.

Non manca Marisa, la torinese, affascinante e nevrotica, «giovane archeologa dal sicuro avvenire », gambe lunghe e ottimismo. In mezzo altri personaggi dalla personalità non banale, dall’archeologo Paolo Orsi, che si aggira sul Rossarco alla ricerca della città di Krimisa, alla tenera Ninabella, innamorata di un aviatore inglese che precipita in questi luoghi e che poi morirà tragicamente. Ninabella, una delle figure più commoventi del romanzo, cercherà di fuggire dal torpore sposando il fratello dell’aviatore, ma il matrimonio non riserverà felicità. La «collina del vento» sovrasta questo sciame di personaggi, una sorta di tempio della natura continuamente minacciata dall’uomo e dalla (in)civiltà.

Abate ha realizzato un romanzo solido, classico, con uno stile senza fronzoli e che sa resistere alla tentazione della metafore, così frequenti in prove simili. Ma ciò che caratterizza la prosa dello scrittore calabrese è la vittoria del gusto di raccontare su tanti materiali che, se non maneggiati con sapienza, possono inquinare la narrativa. Parliamo di nostalgia, di denuncia, di sociologismo, di estetismo, di risentimento, di ideologia ovviamente, tutti elementi che si incontrano spesso nei romanzi «territoriali». Abate non è caduto in queste tentazioni e la Collina del vento, nella sua essenziale struttura esprime soprattutto la voglia di narrare una storia, che si sviluppa dal Sud ma che potrebbe sgorgare da qualsiasi latitudine. Soprattutto, ed è una buona notizia, non c’è traccia di lirismo.

Perché Abate non ama perdere tempo, e punta al sodo, a raccontare, certo, quello che ci può interessare della vita. «Ho voluto evitare nostalgia e retorica - racconta Abate - mi interessa salvare la memoria, che è una grande luce che illumina il presente. Come lettore sono così, cerco opere in cui la forza è la storia, non amo gli orpelli, le didascalie. La storia deve essere profonda, elimino le metafore e a livello linguistico ho evitato la trappola dei dialettismi. A mio avviso un narratore deve saper stupire, per questo mi appoggio spesso allo sguardo dei bambini e degli anziani». Lo dimostra per esempio il passo in cui Michelangelo chiede al padre Arturo notizie del giallo che percorre come un fiume carsico l’intero romanzo, quello dell’omicidio di due uomini, «due uomini scheletriti» trovati dal professore, un mistero che verrà svelato solo alla fine della Collina del vento.

Il padre gli impone silenzio poi cede e aggiunge: «Solo così la storia nostra non verrà scancellata dalla faccia della terra, solo così non moriremo mai completamente ». Chi sono i riferimenti di Abate? «I miei veri maestri sono stati i contadini della terra, da piccolo stavo ore nelle botteghe degli artigiani, sono diventato scrittore perché ho saputo ascoltare. Ho imparato tante cose. Erano veri narratori, tenevano la suspense, non ti svelavano il finale. Poi certo leggo molto, adoro John Fante, Marquez, Fuentes, Tabucchi, Celati. Non possono non ricordare i Sillabari di Parise, esempio eccellente dell’urgenza di raccontare». I personaggi della Collina del vento potrebbero prestarsi per un seguito? «Non ci penso nemmeno. Il romanzo copre cento anni, poteva diventare una trilogia, invece no. Ormai è una storia conclusa ».