In: Strumenti, nr. 44, dicembre 2006.

Mescidanza di linguaggi, viaggi e mediterraneità
nella Letteratura di Carmine Abate

  di Gianluca Bocchinfuso
 


Nelle pagine dei romanzi di Carmine Abate troviamo tutta l’umanità del popolo semplice in bilico tra ingiustizia e giustizia, tra ricchezza dei sogni e povertà della realtà, tra partenze e arrivi, tra sofferenza individuale e consolazione collettiva.

Abate è uno scrittore italo-albanese, nato in un piccolo paese arbëreshe, Carfizzi, a pochi chilometri da Crotone, in Calabria, appena sopra quella costa ionica che alla fine del 1400 era stata la meta delle popolazioni albanesi d’oltremare sfuggite all’occupazione turca. Tra quelle battaglie, a causa di una febbre malarica, nel 1468, perse la vita l’eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, ombra mitica presente in tutti i suoi romanzi, ad iniziare da La moto di Scanderbeg e in diverse poesie dell’unica raccolta pubblicata, Terre di andata.

Abate inizia a scrivere fin da giovane, coltivando - sia in poesia che in narrativa - l’immagine nitida delle sue origini e il destino di molti suoi conterranei e parenti, un’epopea corale - fatta di sofferenza e di speranza - che traspare in ogni pagina dei suoi libri, in cui l’emigrazione è dettata dal binomio delle partenze e dei ritorni, con una parabola fatta di tante storie e di infinite immagini chiaroscurali.

Il viaggio è un tema centrale nella letteratura di Abate. Proprio in lui, che rappresenta una tipologia di scrittore migrante particolare: italiano di origine arbëreshe, emigrato con la famiglia in Germania per motivi economici, rientrato successivamente in Italia ed attualmente residente a Trento, anche se sempre legato alla sua Calabria albanese, dove ogni anno fa ritorno. L’itinerario di Abate - quello reale e quello narrativo - è un percorso che lo accomuna con altri uomini e donne in cerca di fortuna, che sfuggono ad un comune nemico chiamato disoccupazione: in Abate si ripercorre - tra le righe, grazie alle continue rapsodie che recupera e rielabora - l’epopea dei suoi avi, sfuggiti alla spada dei turchi ieri e in fuga dalla fame oggi. Questo senso di coralità - che dà alla sua scrittura un carattere decisamente memoriale - lo troviamo già nelle sue poesie, come Giochi di lingue, in cui scrive: «Unsere schöne Sprache, mi dissero/ al corso serale per stranieri/ e d’allora ripeto gut gut/ sulla luna di marzapane storta/ e vedo ad occhi chiusi/ i nostri con le valigie che arrivano dal/ confine/ - dal confine biancospino dei rimpianti -»[1]. Sono versi intrisi di umana sofferenza, in cui l’approdo in Germania non è solo intuito dalla mescidanza tra italiano, tedesco e arbëreshe, ma anche dall’esplicito senso di lontananza dalla terra natale. Resta solo una comunione di sensazioni e di sentimenti, legati a valigie che hanno dentro tante storie e numerose identità che non saranno più le stesse. La “nuova vita dell’emigrante”, divisa tra il lavoro diurno e la scuola serale per stranieri, porta dentro - anche nel silenzio privato - il «confine bianconeve dei rimpianti», che è l’opposto del sogno legato all’infanzia e all’adolescenza, in cui l’afa e le strade ciottolose e polverose di Carfizzi erano riempite dalle grida di gioia dei bambini e dei ragazzi, uniti dal gioco e dai miti di Scanderbeg e di Garibaldi. E con loro tutti gli uomini provenienti dal mare: figure inesauribili di coraggio e virtù, di gloria patria e di intelligenza.  

Gli uomini di Carfizzi - paesino che nei romanzi di Abate acquista il toponimo di Hora - non sono più italo-albanesi, ma diventano germanesi, immigrati italiani che nel paese tedesco rimangono per anni volti anonimi accomunati nel destino, “dalla vita capovolta, con i piedi al Nord e la testa al Sud”. I germanesi, quegli uomini che parlano un tedesco italianizzato, misto con l’arbëreshe e il dialetto calabrese: una lingua meticcia, non solo per un discorso strutturale di fonemi e di idiomi, ma anche per un ambito culturale in senso ampio, fatto di mescolanza di storie e di suoni.

L’emigrazione è un drammatico percorso scandito dalle attese delle famiglie nel piccolo borgo e dai riti popolari che accomunano le comunità durante le feste e le ricorrenze stabilite. La nostra emigrazione, questo flusso di popolazioni del Mediterraneo europeo che si spostano verso il Nord, è raccontata da Abate anche con toni drammatici, nonostante lo sfondo delle sue storie tradisca sempre la speranza, la sacralità della famiglia, le radici remote che non vengono mai meno. Ma la realtà è sempre drammatica e non trascurabile. Ne è un esempio, il primo racconto - L’idolo lontano lontano - del suo esordio narrativo, Il muro dei muri, in cui l’accento autobiografico alza sempre di più la tensione narrativa, nella decisione improvvisa del figlio di raggiungere il padre ad Amburgo. Un dialogo teso e avvolgente, fotografia di un tempo che, nonostante tutto, generava speranze e voglia di provarci: «Mi risvegliai ad Amburgo. Amburgo. Tutto come previsto, come lui me l’aveva descritta […]

- E tu che ci fai qui? - chiese smarrito, come chi presagisce già un mare di guai. Ci baciammo per dovere.

- Sono venuto a trovarti. Ho voluto farti una sorpresa.-

- Una sorpresa, la chiami una sorpresa, questa? Che sei venuto a fare qui? - chiese di nuovo mentre mi guardava negli occhi cercando di captare le mie vere intenzioni.

- A lavorare - risposi abbassando lo sguardo.

- A lavorare? - ripeté incredulo.

- Si, a lavorare. Sai, ho cercato al paese, a Crotone. Non vogliono giovani appena diplomati. Vogliono geometri con almeno tre anni, quattro di esperienza. E allora ho pensato…-

- Cosa hai pensato, cosa! Hai pensato il cretino che sei, hai pensato - sbottò arrabbiato.

- Ma io…-

- Tu cosa! Credi che qua è la Merica? Che i soldi te li regalano? Devi sudare sangue, devi. Ho lavorato una vita per te. Umiliazioni, sacrifici, sofferenze…e adesso lui mi viene a dire con la faccia di Pasqua che vuole lavorare in Germania, magari a pulire i cessi alla stazione, magari. Che cosa è servito la mia emigrazione, eh? Che cosa, di’, che cosa?»[2].

Un colloquio ricco di tensione in cui la realtà accomuna padre e figlio: la povertà dei paesi del Sud Italia - terra ricca di storia e crocevia di culture nel cuore nel Mediterraneo - spinge verso altre terre giovani uomini nel pieno delle loro forze, con una frequenza che nei decenni passati ha toccato cifre drammatiche. Fa da cornice l’accenno vivo al mito americano, con un richiamo linguistico - Merica - che è una delle tracce del viaggio transatlantico degli italiani[3]. Questa comunanza ritorna nelle battute conclusive de La Festa del ritorno, ennesimo dialogo tra padre e figlio, tra Tullio - emigrato in Francia - e il giovane Marco. Tullio ha parole di speranza e svela a suo figlio il proprio sogno, per evitare che anche lui segua lo sradicamento della migrazione.

«Infine , poco prima che sorgesse il sole dal mare nostro, mi chiamò in disparte e mi riservò il suo sogno di quella notte: - Con i risparmi dalla Francia vorrei mettere su una piccola fabbrichetta di blocchi di cemento, giù vicino al fiume dove c’è la sabbia buona a volontà. Tu che dici? È da tempo che ci pensavo. Ti sembra una bella idea?-

- Ottima - risposi con entusiasmo.

- Così almeno tu non sarai costretto a emigrare.

Annuii solo per fargli piacere ma senza troppa convinzione, accarezzando Spertina che era lontana ad acciambellarsi ai miei piedi. Intuivo cosa mi aspettava un giorno e in fondo non ne ero nemmeno dispiaciuto. Un giorno avrei comprato una valigia di finta pelle. A diciott’anni e sette mesi, per essere precisi»[4]. Concetto che era già presente nelle sue poesie, come L’eredità, nella quale concludeva con un verso amaro e rassegnato: «il pedaggio l’ho pagato io»[5]. Parole che nascondono insofferenza, ma anche senso di accettazione di una realtà che diventerà poi spiraglio positivo, possibilità di raccontare altre vite ed altre situazioni tra gli scenari di una macrostoria ancorata alla microstoria della sua terra. È la forza dei libri degli scrittori migranti: trasformare in positivo l’esperienza dello sradicamento della terra natale, con il misurato e consapevole legame tra terre diverse - se non contrapposte - ma, per questo, portatrici di nuove possibilità e di nuovi momenti di incontro, ad iniziare da quelli linguistici e sociali, muovendosi, come ha scritto Salman Rushdie, come quelle persone che «solo uscendo dalla cornice riescono a vedere il quadro per intero».        

Oggi, la situazione migratoria è capovolta. Il nostro territorio - porta meridionale dell’Europa - è meta di tanti popoli dell’Africa bianca e subsahariana, dell’Europa dell’Est, dell’Asia, in cerca di quella tranquillità - personale, familiare, sociale e lavorativa - che i loro paesi di origine non offrono. Con un distinguo non da poco: i nostri emigranti, i germanesi di Abate e l’autore stesso, si spostavano per motivi di lavoro; molti degli immigrati che arrivano oggi in Italia sfuggono anche da paesi in guerra, da dittature, dal crollo di regimi, da situazioni sociali che ignorano i diritti individuali della persona. Un flusso che si ripete nel tempo e che pone al centro delle tante realtà il Mediterraneo e l’Europa, simboli dell’incontro di identità, di lingue e di culture, ma anche palcoscenici di patimenti e di rimpianti che potrebbero essere riassunti nella fine del colloquio tra il padre e il figlio:

« - Devi partire subito -, e infine con l’aria  da vecchio saggio: -…perché l’emigrazione è come una malattia inguaribile e una volta presa non te la togli più di dosso -.

Lo guardai per qualche attimo negli occhi. I suoi occhi. Non più taglienti come lame. Ma contornati da rughe profonde: per ogni anno, per ogni mese di emigrazione, una ruga profonda»[6]. Sono passaggi in cui si prepara la denuncia delle pagine successive di questo e di altri libri di Abate. L’emigrazione - dal piccolo paese del Sud, isola felice sospesa tra storia e leggende, alla Germania, polmone industriale dell’Europa - è il mezzo che porta i germanesi a vivere due mondi e due vite parallele, ma anche a coltivare speranze, in molti tratti disilluse dal mercato capitalistico che mette in secondo piano i diritti e bada soprattutto al profitto. Doppia sconfitta per gli emigranti: stranieri in un paese straniero e in lotta anonima contro la dura legge del mercato. Ciononostante, la vita li rende parte di questo nuovo mondo: incontrano una nuova lingua, la italianizzano a modo loro, incontrano persone di altre culture, donne diverse, si lasciano trasportare da usanze diverse, s’incrociano e si mescolano con questo nuovo mondo. Tutto questo crea la figura dell’emigrante di Abate, del germanese che vive dentro la propria anima il tormento quotidiano della distanza dalla terra che, nonostante le migliaia di chilometri di distanza, rimane il luogo mitico verso cui ritornare. Sono le attese di cui parlavamo prima. Attesa di ritornare. Attesa di ripartire. La testa e il cuore divisi a metà: per la terra che dà lavoro e per la terra che ha dato la vita e custodisce gli affetti. Questo essere di qua e di là[7], questo tornare per poi ripartire, lo ritroviamo esplicitamente accennato alla fine del romanzo raccontato a più voci, La moto di Scanderbeg[8], e nel titolo e nelle vicende de La festa del ritorno. Quest’ultimo, pur conservando tutte le caratteristiche dei romanzi di Abate, si presenta come un romanzo di formazione, in cui Marco vive per i racconti e le storie del padre Tullio e del suo andirivieni dalla Francia. Ancora una volta, Hora, affacciata sul mare, avvolta nel caldo dell’afa estiva e in quello del fuoco di Natale, si dipana lungo l’Europa e corre con i suoi uomini verso il lavoro lontano. Padre e figlio sono legati dai ricordi familiari e dalle attese del ritorno, della festa, avvolti in un’atmosfera simbolica eternamente valida: «Stavamo ammirando il fuoco di Natale, quella notte, seduti sulla scalinata della chiesa di Santa Veneranda. Era stato acceso da poco e già aveva le sembianze di un vulcano impotente, dalle cui bocche si levavano fiamme alte e pennacchi di fumo»[9]. Il ritmo del romanzo ha nella partenza e nell’arrivo i momenti più profondi, più esplicativi di un rapporto che non conosce sosta e che si rinnova sempre: «Così era partito di nuovo per la Francia del Nord, sette mesi dopo la nascita del suo bir, il figlio maschio, io»[10] .

Una scena che si ripete, contornata dal silenzio e dall’impossibilità di fermare il tempo. «Una mattina di fine aprile trovai il lettone vuoto [...] Nella tarda mattinata sapevo già tutto: lui partiva mentre io dormivo, mi baciava sulla fronte e partiva. Aveva fatto così anche stavolta: non voleva vedermi piangere disperato o forse non voleva che lo vedessi piangere»[11]. E ancora: «E infine scrivevo: - Natale è la festa più bella perché torna mio padre dalla Francia -. Infatti, mio padre era ritornato da due settimane e ora era alle mie spalle, con la nonna a braccetto e il resto della famiglia al suo fianco, mi aveva dato una pacca affettuosa sulla nuca, facendomi trasalire»[12].  

Il viaggio di Abate non è solo costrizione fisica dettata dal lavoro. È anche epopea mitica, continuo appello alle radici linguistiche e agli avvenimenti storici che hanno formato e plasmato le generazioni di ieri e di oggi: pensiamo ai caldi racconti di Gojàri (Boccadoro) ne Il mosaico del tempo grande, storie che incrociano altre storie, proprio come i tasselli di un mosaico e incuriosiscono Michele spingendolo a “viaggiare” nel tempo e ad interpretare il presente, quello personale con Laura Damis e quello della sua gente. La figura di Scanderbeg è simbolo di coraggio, di unione, di vigore, che si lega ai richiami linguistici della lingua arbëreshe che troviamo, appunto, in tutti i suoi libri. In un’intervista Abate, qualche tempo fa, ha affermato di pensare in lingua albanese ma di scrivere in italiano. Un dualismo che si fonde in tutte le espressioni che si incontrano nei suoi libri, perché le sue storie sono il frutto di ricordi di infanzia e adolescenza mai persi - anzi, rafforzati - nella maturità, narrati nelle rapsodie tipiche della sue terra che, attraverso la tradizione orale, tenevano insieme intere comunità di semplici contadini. La mescidanza è, quindi, ricchezza di forma e di contenuto; è un mezzo che permette di ripercorre sentieri culturali e storici altrimenti sconosciuti. Anche per questi motivi, Abate non è uno scrittore etichettabile in senso assoluto, perché, pur inserendosi nel canone degli scrittori migranti, conserva un’originalità tutta sua, anche linguistica e ce ne dà dimostrazione nei suoi romanzi con il continuo uso di espressioni calabresi, arbëreshe, italiane e con passaggi eloquenti come il successivo, che dimostrano un’identità che diventa tante identità:

« - Morocain? Algeréin? - mi chiede curiosa, invece di indicarmi subito la strada.

- Arbëresh - rispondo senza pensarci, come a volerle offrire un’informazione intima di me, che di solito con i forestieri veniva a galla dopo molto tempo o forse mai. Per tutti ero semplicemente un étrangero o un italiano o un meridionale o un calabrese»[13].

È chiaro che la base della sua lingua è l’italiano, ma la nostra lingua si lascia “trasformare” e “catturare” dalle impronte che il tessuto plurilinguistico dell’autore ha catturato nel corso della sua vita, dalle rapsodie e dalle nenie che i vecchi gli raccontavano da bambino, fino alle conversazione quotidiane nella fredda Amburgo, fianco a fianco con gli altri emigranti italiani e con le persone del posto. Abate riscalda la sua lingua con tutti i collegamenti e i riferimenti che mescola in modo naturale: siamo di fronte ad un nuovo realismo magico che offre una chiave di lettura ad un’epopea - quella della migrazione - che unisce, anche in epoche diverse, il destino di migliaia di uomini e delle loro donne, eroine quasi scomparse nel mondo crudo e veloce di oggi.

Abate e la scrittura, Abate e l’emigrazione. Una chiave di lettura che dal Mediterraneo parte e al Mediterraneo ritorna e unisce storie diverse che s’incontrano e non rimangono mai uguali a se stesse. Semplicemente, si mescolano nella forma e nel contenuto. È questo il valore aggiunto della letteratura italiana della migrazione e del viaggio di andata e ritorno dei libri di Carmine Abate. Un autore particolarmente interessante e ricco di spunti anche per lavori di didattica interculturale.

 

[1] Carmine Abate, Terre di andata, Argo, Lecce 1996, in AA. VV., Parole di sabbia, Edizioni Il Grappolo, Mercato San Severino (SA) 2002, pp. 31-32

[2] Carmine Abate, Il muro dei muri, Oscar Mondadori, Milano 2006, pag. 17

[3] Uno dei libri che racconta l’emigrazione degli italiani in America è quello di Franzina E., Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti e friulani in America Latina 1876-1902, Cierre Edizioni, Verona 1994

[4] Carmine Abate, La festa del ritorno, Oscar Mondadori, Milano 2004, pag. 161

[5] Carmine Abate, op. cit. in AA. VV., op. cit., pag. 35

[6] Carmine Abate, op. cit., pag. 18

[7] Questo concetto è presente in diversi scrittori migranti. Si veda la raccolta di racconti di Christiana De Caldas Brito, Qui e là, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2004

[8] «Noi che conoscevamo la storia di Giovanni, ci sentimmo scrutati tutto il tempo, ci pareva che guardasse solo noi, nemmeno ascoltammo bene quello che diceva, ma sapeva parlare, questo si capiva, parlava di Hora, cioè di noi, e fece più volte il nome di Scanderbeg. Allora alcuni di noi ebbero l’idea di invitarlo al paese per presentare il suo libro alla ‘Festa del ritorno’, che si tiene ogni anno ad agosto, quando ritornano gli emigrati del Nord», da Carmine Abate, La moto di Scanderbeg, Fazi Editore, Roma 1999, pp. 195-196

[9] Carmine Abate, op. cit., pag. 11

[10] Carmine Abate, op. cit., pag. 114

[11] Carmine Abate, op. cit., pag. 33

[12] Carmine Abate, op.cit., pag. 79

[13] Carmine Abate, op. cit., pag. 59