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    L’AdigeDomenica 30 luglio
    2000
 Abate e il
   “ballo tondo”Dopo
   il successo di “La moto di Scanderbeg” Fazi punta sulla riedizione del
   primo romanzo
 
 di Giuseppe Colangelo
 
     
 Non è ancora
   spenta l’eco del buon successo di critica e di pubblico toccato, più che
   meritatamente, l’anno scorso a “La moto di Scanderbeg” (finalista al
   “campiello”, recensito o segnalato sulle principali testate italiane,
   giunto alla seconda edizione dopo solo quattro mesi dall’uscita) ed ecco
   che lo stesso editore (Fazi) manda in libreria un altro romanzo di Carmine
   Abate. Non un romanzo nuovo in verità, ma quel “Ballo tondo” che poco più
   di nove anni fa, pubblicato da Marietti, segnò il felice esordio narrativo
   dello scrittore calabrese che vive a Besenello. Si tratta dunque di una
   riedizione, ma poco importa. Ciò che veramente conta è che grazie alla casa
   editrice romana un grande romanzo, già da lungo tempo introvabile, è di
   nuovo a disposizione dei lettori. Dei lettori antichi e affezionati che in
   questi anni, forse proprio come chi scrive, non hanno mancato di segnalarlo
   con convinta passione (ma anche con un senso di frustrazione, visto che poi
   non era disponibile) agli amici, ai colleghi e a chiunque chiedesse consigli
   di lettura; ma anche di quelli nuovi che una volta letto il libro di Abate
   non tarderanno - ne siamo più che sicuri - a fare un loro personale
   passaparola. Et pour cause! “Il ballo tondo” è un romanzo quanto mai
   fascinoso e sconvolgente, uno di quei (rari) romanzi capaci di far provare
   concretamente ai propri lettori “il piacere del testo” e di spingersi per
   uno spontaneo e caldo bisogno di condivisione.la ragione principale e più evidente del suo indiscutibile fascino sta,
   crediamo, nel fatto che narra una vicenda di grande respiro riuscendo a
   mescolare con sorprendente sapienza stilistica realtà e leggenda, mito e
   cronaca, vita e sogno. Una miscela pressochè perfetta il cui funzionamento
   è visibile sin dalle prime pagine del libro, dove a un incipit interamente
   incentrato sul testo di un’antica rapsodia arbereshe (il termine
   ‘arberesh” designa i discendenti degli albanesi che ne corso del XV
   secolo fondarono diverse comunità nell’Italia meridionale), succede un
   prologo che ne assorbe il tono epico e la sostanza fiabesca e li rivitalizza
   immettendoli, con assoluta naturalezza, nel flusso di una narrazione del
   tutto nuova, ricca di verità e di poesia. Così dalla favola di Costantino
   il Piccolo, protagonista della già citata rapsodia, si passa, senza
   soluzione di continuità, alle vicende di Costantino Avati, personaggio
   principale del “Il ballo tondo”.
 Ambientato in un piccolo centro contadino di origine albanese in provincia di
   Crotone (Hora nel romanzo, Carfizzi, paese natale dell’autore, nella realtà),
   il libro, la cui azione si svolge interamente negli anni Sessanta, ripercorre
   l’infanzia, l’apprendistato culturale e l’educazione sentimentale di
   Costantino. Un periodo di soli dieci anni, dilatato però dal tempo lento e
   immisurabile delle memorie ancestrali, delle leggende, delle visioni che si
   insinuano a più riprese nella vita del protagonista e la condizionano. A
   cominciare da quelle che paiono adunarsi tutte, come per magia, e acquistare
   un senso affatto nuovo nell’episodio che segna profondamente la sua
   esistenza. All’età di nove anni Costantino viene portato dal nonno materno
   sulla spiaggia dove cinque secoli prima erano sbarcati gli avi costretti ad
   abbandonare l’Alberìa invasa dai turchi, e qui si “vede” l’aquila
   bicipite. La stessa che campeggiava sulla bandiera del loro eroico
   condottiero, Scanderbeg, che, secondo il racconto del nonno, dopo aver
   consigliato ai suoi di rifugiarsi nell’Italia del sud, era rimasto, con un
   pugno di coraggiosi, a fronteggiare eroicamente le soverchianti forze turche.
   “In un attimo a Costantino questo Scanderbeg - così dice la bella pagina
   del libro che racconta l’episodio - fu più familiare di Garibaldi,
   l’eroe dei Due Mondi, che aveva studiato a scuola e, montato sul molo, come
   se montasse sul cavallo del cipresso, si impadronì ella storia con un lungo
   sospiro e uno sguardo a raggiera nel vuoto”. Per Costantino dunque quella
   visione è propriamente una rivelazione, la luce che gli illumina la mente e
   gli fa comprendere d’un tratto l’autentico valore del passato della sua
   gente. da quel momento egli è pronto a ricevere dalle mani del nonno il
   testimone della tradizione arberesh a portarlo verso il futuro. Un compito
   non facile che via via assume addirittura i tratti dell’impresa disperata,
   perché mentre Costantino crescendo appare sempre più convinto della
   necessità di realizzarlo, per conservare un pezzo essenziale dell’identità
   profonda della sua gente, intorno a lui, nella comunità, tra gli amici e
   persino nella cerchia degli affetti più cari (con l’eccezione del nonno),
   montato invece il disinteresse, l’indifferenza, l’oblio. Sono sintomi
   inquietanti di una disgregazione sociale, di uno sfaldamento culturale già
   in atto che sommati agli effetti non meno allarmanti di una sbrigativa quanto
   farraginosa modernizzazione, fanno presagire il lento ma inarrivabile declino
   di quella civiltà che Costantino vorrebbe salvare. A tenere ancora accesa la
   tenue fiammella della speranza rimangono la sua appassionata ostinazione a
   resistere e la trepida domanda in arbedesh, ripetuta più volte da un bambino
   piccolissimo figlio di sua sorella: E pra? (E poi) nella pagina finale.
 “Il ballo tondo” è certamente, come si disse già al suo primo apparire,
   un romanzo di formazione ma è anche - oggi conoscendo le altre tappe
   dell’iter creativo di Abate o si può affermare con sicura facilità - il
   tassello iniziale di uno straordinario affresco arberesh che lo scrittore
   calabrese sta realizzando sotto i nostri occhi. Con questo libro la
   “piccola arberia” italiana (37 comuni sparsi n sei regioni del
   Mezzogiorno) ha scoperto un suo nuovo grande rapsodo, la nostra letteratura
   un narratore di prim’ordine.
 
 
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